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Dazi, lavoro, Europa, il cataclisma Trump

Mi piacerebbe conoscere quell’economista che ha suggerito a Trump di usare l’aumento dei dazi per realizzare la sua MAGA (Make America Great Again). Lo proporrei per il premio “Ignobel” che esiste realmente da molti anni e viene assegnato alla più stravagante idea economica e non, dopo accurata valutazione di una giuria di veri Premi Nobel. Assicuro che partecipano in tanti e chi lo riceve acquista una certa notorietà.

Fare di nuovo grande l’America usando quest’arma ha bisogno di una magia. Nell’immediato, dà una botta pesante alle esportazioni verso gli USA se ad esse vengono imposti dazi consistenti, ma l’effetto sostituzione con produzioni interne, a parità di consumi, non potrà che essere una forte inflazione. Né la produzione interna, per incanto, può soddisfare la richiesta dei consumatori, né la sostituzione di fornitori esteri o di beni che non si producono negli USA, si potrebbe fare in quattro e quattr’otto. La sospensione dei dazi nel settore automobilistico avvenuta 48 ore dopo aver emanato in pompa magna il decreto contro Canada e Messico, la dice lunga a riguardo.

Di conseguenza, anche la stabilità e l’aumento dell’occupazione statunitense – che dovrebbero essere una delle caratteristiche del successo MAGA, al punto di aver affascinato anche molti immigrati di prima generazione – dipenderanno dall’efficacia della manovra sui dazi verso tutti i Paesi presi di mira dal Presidente Trump. Con l’inflazione che scoppierà prima dell’adeguamento della produzione, è ben difficile che il lavoro aumenterà in maniera rassicurante per l’appuntamento elettorale di mid-term, che secondo quelli che conoscono a fondo il mondo politico statunitense, sembra essere l’ossessione dell’Amministrazione Trump. Infatti, basta l’elezione di pochi democratici in più, sia per il Senato che per la Camera, per far perdere il controllo repubblicano delle due istituzioni, acquisito con le elezioni del novembre 2024.

Ovviamente, nel frattempo, per i Paesi destinatari degli aumenti dei dazi, a parte la ritorsione sempre esercitabile ma che non fa somma zero, gli effetti sarebbero complessivamente depressivi. Molti settori entrerebbero in crisi più o meno grave a seconda delle possibilità di trovare subito soluzioni sostitutive in altri mercati. Sarà sempre più difficile mantenere i livelli occupazionali esistenti. Per l’Italia, sarà un banco di prova della tenuta della sua manifattura del tutto imprevedibile, che si andrebbe a sommare al caro energia già in atto, ai processi di ristrutturazione in corso per effetto della transizione green e digitale e alla scarsa propensione al consumo degli italiani. Una sfida drammatica che stride con la narrazione che il Governo continua a fare sulla questione lavoro, per cui “tutto va bene, madama la marchesa”.

Nessuno è in grado di sapere fino a che punto Trump si spingerà nel distribuire nel mondo questo messaggio devastante, né per quanto tempo terrà fede al suo messianismo elettorale. Soprattutto, si vedrà se godrà ancora dell’acquiescenza degli americani, a partire da quelli che lo hanno votato. Di certo, c’è che non risparmierà l’Europa. Chi spera nella logica di Trump di fare fratelli e fratellastri fra gli Stati europei, si illude. Se aumenti ci saranno, saranno spietatamente per tutti. 

Ma l’operazione dazi è soltanto un tassello della sua strategia di indebolimento di questo continente. Sia politicamente, cercando di favorire i sovranisti di ogni colore e quindi di impedire il processo aggregativo faticosamente in atto. Sia economicamente, perché un infiacchimento del suo apparato produttivo è la condizione per una marginalizzazione dell’euro, da sempre spina nel fianco del dollaro, più che dello yuan o del rublo.

Nella sostanza Trump sta provocando una fase di tale incertezza da produrre più tensioni di quante ce ne siano già. Non risparmiando gli USA dall’essere coinvolti dalle tante incognite che si stanno accumulando. Il primo segnale l’ha dato, come sempre accade, la Borsa di New York. Per questo l’Europa deve correre ai ripari. I fronti aperti sono diventati improvvisamente voragini. Chi avrebbe immaginato pochi mesi fa che le questioni degli assetti e delle alleanze internazionali sarebbero stati oggetto di discussioni a tutto campo e in tutti i luoghi. Da quelli tra specialisti a quelli fatte a tavola, in casa. Non solo nei circoli finanziari ma anche al bar, la politica internazionale tiene banco, soprattutto perché non si tratta di scegliere tra nero e bianco ma tra tante sfumature di questa polarizzazione. Resta il fatto che la preoccupazione è grande.  

Non a caso, la manifestazione del 15 marzo, lanciata con poche ma incisive righe da Michele Serra, ha avuto spontanee adesioni di popolo, superando ogni pur legittimo distinguo delle rappresentanze politiche e sociali. Soltanto una forte richiesta popolare di più Europa può fare affrontare un difficile passaggio dall’ordine mondiale delineato e consolidato nella seconda metà del secolo scorso ad uno nuovo, ancora indecifrabile. Certo, bisogna fare barricate alle esternazioni di Trump e del suo Vice, Vance. E’ una visione troppo estemporanea, da affaristi spregiudicati, da manipolatori del valore della libertà, da uomo forte con i deboli e debole con i forti. 

L’Europa deve saper dettare un’agenda di questa dura traversata, senza giocare di rimessa. La priorità è una comune strategia per la sicurezza (investimenti strategici di difesa, intelligence integrata, esercito europeo da privilegiare agli investimenti Stato per Stato e questo è il punto più debole della proposta Von der Leyen); capisco i pacifisti che storcono il muso, ma come ha scritto sempre Serra “qualcuno ha detto: prima la pace, qualcun altro: prima la libertà. Ma Europa vuol dire, sia pure nell’empireo dei principi, che le due cose non possono che stare assieme, perché l’una senza l’altra non può esistere” (Repubblica 11/03/2025). Ma deve anche  rapidamente definire una politica di bilancio comune per realizzare un sistema fiscale comune e una politica industriale competitiva come indicato da Draghi e Letta, condizione sine qua non per assicurare robustezza anche al suo fiore all’occhiello, lo Stato sociale. 

A tutti i costi e con chi ci sta. Se no, è bancarotta. Tertium non datur.     

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