Ci risiamo con l’articolo 18. Lo Statuto dei lavoratori è nuovamente sotto tiro. Ma la gran parte delle persone non ne capisce la ragione. C’è una crisi feroce, con 1000 licenziamenti al giorno da parecchi anni e in Parlamento ci si accapiglia su una regola che ha applicazione concreta del tutto marginale. C’è una richiesta che ritorna ricorrentemente nel lessico delle autorità europee: ci vuole più flessibilità nel mercato del lavoro italiano. Ma veramente si pensa di tacitare questa sollecitazione sventolando lo scalpo dell’articolo 18? In Europa non c’è gente disponibile a farsi prendere in giro. C’è, infine, un serio bisogno di stimolare l’occupazione, specie quella giovanile, ed è sensato ritenere che questo soddisfacimento passa per la cancellazione di quella norma?
La questione è talmente surreale che gli interrogativi sembrano retorici. Ma allora? Non c’è finora risposta convincente da parte del Governo come della maggioranza parlamentare. E si continua a cincischiare attorno ad una delega che propone tutto e il contrario di tutto. Vuole tenere in vita varie tipologie di contratto, ma fa capire che bisogna privilegiare l’introduzione del contratto a tutele crescenti. Vuole combattere la “cattiva” flessibilità, ma apre alla possibilità di estendere a tutti i settori l’utilizzo dei vauchers. E’ contraria all’uso assistenziale degli ammortizzatori sociali, ma persegue la proroga degli esistenti. A ben vedere, questa confusione, forse, è una delle ragioni perché l’articolo 18 diventa il totem attorno al quale danzare per convincersi di essere riformatori.
Il tempo, però, stringe. La legge di stabilità va fatta. Come va preparata la discussione in Europa sul nuovo equilibrio tra crescita e rigore nei conti. I fronti su cui intervenire sono molti e diversificati, ma è difficile che il mercato del lavoro possa essere esentato da questa discussione. Anche se va sempre ricordato che l’occupazione cresce soprattutto se ripartono investimenti e consumi. Ebbene, allo stato, l’unica certezza è che l’indecisione regna sovrana. Tanto sui contenuti, quanto sulla strumentazione da adottare. Né sembra che le parti sociali, nel loro insieme, siano in grado di portare ordine dove questo non c’è. Certo, c’è chi si mobilita, chi recalcitra, chi è sornionamente in silenzio, ma non emerge un disegno di cambiamento della portata che la crisi, l’Europa, la fame di lavoro sollecitano con insistenza.
L’agenda va quindi ripensata. La legge delega è strumento troppo complesso per rispondere alla necessità di decidere rapidamente. Per questo sarebbe ragionevole stralciare alcune norme significative per renderle operative in breve tempo, utilizzando, per esempio, la legge di stabilità. Il criterio non può essere… scriteriato, ma tendenzialmente orientato a dare maggiore certezza ai soggetti interessati e cioè imprese e lavoratori. Ovviamente, la selezione non è operazione tecnica ma enormemente politica; non può essere una mera lustratina dell’esistente, ma deve essere visibilmente innovativa. Soltanto in questo modo, potrà essere apprezzata sia in Italia che in Europa come manovra riformistica.
Il promemoria non è difficile da mettere assieme. Se non si vuole che le cose restino come sono (e ricordiamoci che il decreto Poletti ha dato un grosso contributo alla flessibilità del mercato del lavoro, specie con il ridisegno del contratto a tempo determinato), l’unica strada è quella di sbaraccare i tanti contratti atipici e puntare sul contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti. Inoltre, va fissato con chiarezza il perimetro del lavoro subordinato rispetto a quello autonomo.
Va anche affrontato il capitolo delle tutele attraverso gli ammortizzatori sociali. Se si vuole far perdere a questi la caratterizzazione di strumenti prevalentemente assistenziali, va privilegiato il contratto di solidarietà rispetto alla Cassa integrazione guadagni straordinaria; quest’ultima va riservata ai lavoratori colpiti da chiusure aziendali o da acquisizioni che provocano esuberi, con oneri anche a carico delle aziende. Collateralmente va avviata l’introduzione di un sussidio per tutti i maggiorenni senza lavoro e senza reddito che sono inseriti in programmi formativi.
Per ultimo, ma non per minore importanza, c’è da ripensare la politica delle incentivazioni. Premesso che il costo del lavoro italiano non è più alto di quello medio europeo, la cosa peggiore, e quindi da non fare, è procedere per tagli lineari. Abbassare l’IRAP per tutti è un non senso, in regime di risorse scarse. Tutte le aziende che esportano hanno bisogno che l’euro si svaluti rispetto al dollaro piuttosto che ricevere un vantaggio fiscale sul lavoro. Meglio se, individuando le opportune misure, si incentivi il lavoro di qualità e quindi i settori a più alto valore aggiunto e a più efficace produttività.
Ovviamente, questo è un promemoria che ha bisogno di un’interfaccia essenziale: una politica industriale degna di questo nome. Stiamo alzando la voce per ottenere flessibilità rispetto al patto di stabilità per realizzare investimenti e forse Renzi ce la farà ad ottenerla. Ma per fare cosa? La discussione sulla selezione delle priorità è ancora indietro e l’impressione è che tutto sia prioritario. Ma così non sarà, né può esserlo. Dobbiamo scegliere se è meglio concentrare gli investimenti nella banda larga o in interventi a pioggia, nell’energia alternativa e nella tutela del territorio o nell’edilizia tradizionale, nell’industria culturale – tanto cara a Franceschini – o nel sostegno ai soliti consumi.
Il tempo sta scadendo e non solo per il Governo. Ne vedremo delle belle.