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Il nostro futuro è più cultura

Questa volta, i giurati che assegnano il Premio Nobel per la pace hanno avuto l’applauso di tutto il mondo. Indicando – tra 280 candidati – l’attivista indiano anti schiavitù dei bambini, Kailash Satyarthi e la più giovane e più famosa pakistana Malala Yousafzai – la paladina del diritto all’istruzione delle bambine e invisa ai talebani – hanno rilanciato un messaggio di concreta speranza per i più deboli di questa terra. Ma hanno anche indicato, nell’educazione, uno dei fondamenti essenziali per l’emancipazione dei popoli. Un richiamo che, se è di vitale importanza per i Paesi emergenti, non è di minore efficacia  per i Paesi più ricchi.

D’altra parte, un economista che va per la maggiore in questi giorni, il francese Pichetty indica, tra le principali conclusioni della sua poderosa analisi sulle disuguaglianze economiche e sociali, la questione dell’istruzione. “Sul lungo periodo, il fattore veramente propulsivo e in grado di determinare processi di eguaglianza delle condizioni, è la diffusione delle conoscenze e delle competenze…..In tal senso, le disuguaglianze diventerebbero di per sé più meritocratiche e meno immutabili (se non meno evidenti) nel corso della storia: in qualche modo, la razionalità economica si tradurrebbe meccanicamente, se così fosse, in razionalità democratica” (Thomas Pichetty, Il Capitale nel XXI SECOLO, Bompiani).

Per quelli che ancora ostinatamente pensano che con queste citazioni si continua a navigare sulle onde dell’emozione o dell’intellettualismo, è opportuno citare Prodi che, lapidariamente, ha ripetuto più volte che: “A lungo, un Paese non può essere contemporaneamente ricco e ignorante; se si vuole far prevalere la prima qualificazione, si deve evitare che sussista l’altra e viceversa”. E con questa staffilata ci possiamo immergere nella situazione italiana che, per effetto di questa crisi così lunga e profonda, sta proprio misurando la concretezza del dilemma prodiano. Perché noi in particolare – rispetto ai principali Paesi europei – siamo stati troppo a lungo ricchi e ignoranti. 

Molta della nostra produzione industriale è stata caratterizzata da basso valore aggiunto dei prodotti e da basso livello di competenze professionali e di conoscenze scientifiche e tecnologiche. Basti pensare che per parecchi anni abbiamo avuto per concorrenti i Paesi emergenti. I nostri servizi, privati e pubblici, sono appesantiti da sistemi organizzativi con scarso contenuto innovativo, nei quali i processi di analfabetismo di ritorno non sono stati adeguatamente combattuti. Solo da un decennio esistono i Fondi interprofessionali per la formazione degli adulti occupati, mentre in Francia esistono dall’inizio degli anni 50 del secolo scorso. E che dire della struttura della formazione professionale, da un lato e della qualità dell’educazione universitaria sempre più un passo indietro rispetto alle esigenze espresse dal mercato del lavoro?

Dalle macerie della crisi, stanno spuntando indizi marcati di profonde modifiche sia nei cataloghi dei prodotti che delle modalità per realizzarli e commercializzarli. I livelli qualitativi si stanno alzando sia per i prodotti tradizionali che nuovi, i confini del marketing si vanno dilatando, i destinatari finali hanno profili più raffinati. Gli effetti di tutto ciò sulle professionalità sono inevitabilmente devastanti. Muoiono parecchi mestieri e professioni, ma ne emergono di nuovi, anche se non cambia il nome e di nuovissimi, dal lessico del tutto originale. Non a caso, proprio nel vivo della crisi, c’è chi si lamenta di non trovare nel mercato, le professionalità di cui necessita. Ovviamente, lo scarto tra la massa dei disoccupati e questa quota di attività non soddisfatta dall’offerta è ancora molto ampio, ma segnala una tendenza alla distorsione che può estendersi se non si corre ai ripari.

Ci sono due fronti che vanno curati con attenzione e premura. Il primo riguarda i giovani che devono essere sostenuti con strumenti efficaci nella scelta degli studi che devono fare. Non basta più né l’intuito dei genitori, né il suggerimento degli insegnanti nella individuazione delle scuole verso le quali indirizzarsi. Ci vogliono orientamenti a più ampio raggio, a più ricco sventagliamento nel panorama scolastico e universitario, a più efficace visione delle prospettive. Questo orientamento culturale lo possono svolgere tanto istituzioni pubbliche, quanto soggetti privati, sempre che lo facciano con competenza. Il guaio è che ora nessuno si cimenta in modo sistematico ed organico e francamente nella Delega Lavoro la traccia è di assoluta debolezza.

Il secondo fronte è quello degli adulti che perdono il lavoro e la scappatoia di tenerli a bagno maria, con un sussidio di sopravvivenza, fino al momento della pensione, non funziona più. Troppi quarantenni e cinquantenni affollano le liste di mobilità, gli sportelli della CIG straordinaria o in deroga o le graduatorie dei disoccupati. Verso questi l’offensiva per riqualificarli deve essere massiccia e rigorosa. Ci vuole un tutoraggio permanente alla persona per orientarla alla migliore formazione possibile, un catalogo di corsi non striminzito ed obsoleto, un controllo dell’effettiva partecipazione. A tutto ciò va collegato il sostegno al reddito. Nella Delega Lavoro le intenzioni sono declinate a sufficienza, ma la magagna è nel dettaglio. Si dice che tutto ciò deve avvenire senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica. Roba da far cadere le braccia.

Ma non bisogna desistere. Ne va di mezzo il futuro del Paese. Ci sarà una trattativa sui decreti delegati dalla Delega Lavoro, tra Governo e parti sociali. L’occasione non va sprecata. Non bisogna essere maghi per sapere che gli italiani vorrebbero essere ricchi piuttosto che poveri. Ma niente è dato gratis. Per cui non ci resta che acculturarci di più e meglio. 

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