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Grandi traguardi per un Papa che non vuole essere un re

Secondo i sondaggi, credenti e non credenti, in tutto il mondo, hanno apprezzato la scelta che i cardinali di Santa Romana Chiesa hanno fatto per dare un degno successore a Papa Francesco. Curriculum ecclesiale eccellente; formazione robusta (sia scientifica in quanto matematico, sia religiosa d’impronta agostiniana doc); statunitense e di questi tempi la dice lunga, sebbene anche con carta d’identità del Perù; poliglotta quanto basta per chiarire che il mondo lo conosce bene; allenato alla guida globale della Chiesa, per volere di Francesco, avendo retto negli ultimi due anni il dicastero dei vescovi, crocevia apicale di organigrammi complicati, certamente non improvvisati. Questo e molto altro è Robert Francis Prevost, dall’8 maggio scorso, Leone XIV. 

Scegliendo di ricongiungersi idealmente con il Papa che per primo ha dovuto misurarsi con il declino della società rurale e l’espansione di quella industriale, Leone XIV ha offerto, al di là delle pur significative parole espresse dalla loggia di San Pietro, il suo biglietto da visita. E cioè, voler affrontare con lo stesso vigore e l’identica lungimiranza dell’altro Leone, il grande mutamento che sta iniziando ad attraversare il mondo contemporaneo, con la triplice sfida del cambiamento climatico, dell’innovazione tecnologica a trazione dell’Intelligenza Artificiale, dell’emigrazione dai Paesi poveri e della denatalità dei Paesi benestanti. 

Tutte questioni per le quali sono crescenti le incertezze circa il loro effetto sulla dignità umana, sulle condizioni di uguaglianza tra le persone e i popoli, sulle tendenze della distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo e in ogni singolo Stato, sulla qualità della vita umana, animale e vegetale. Se   tutta la Chiesa e non solo il Papa se ne occupasse, non tanto per essere portatori di proposte concrete, ma per assicurare un bagaglio culturale e spirituale a tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà, sarebbe un contributo determinante in una fase dove mancano personalità istituzionali e sociali di spiccato riferimento e capaci di far prevalere la pace come normale convivenza nel mondo.

La scristianizzazione in aumento in alcune parti del mondo e la crescita della presenza del cattolicesimo in altre, rappresentano per la Chiesa due facce della stessa medaglia. Entrambe da entrare nella cura di chi la rappresenta, in maniera aperta, comprensiva e tendenti alla convergenza. Questa esigenza pare essere presente in Leone XIV e nell’incontro del 17 giugno scorso con la CEI l’ha esplicitato, raccomandando di “coltivare la cultura del dialogo” nelle realtà ecclesiali perché siano “spazi di ascolto intergenerazionale, di confronto con mondi diversi, di cura delle parole e delle relazioni”. 

Ma c’è un sottinteso “leoniano” in questa visione delle cose del mondo, che riguarda la natura stessa della Chiesa di Roma. Questo Papa sa benissimo che c’è un solo modo per misurarsi con energia e convinzione con quell’intreccio di problemi: non chiudersi nella spiritualità e tra le mura del Vaticano. Un’ala non marginale del pensiero religioso e della sua custodia nella Chiesa è per rincantucciarsi nella purezza della visione teologica dell’essere umano e attendere che il ciclone della mutazione passi per poi riprendere il proprio posto di orientamento dei popoli. 

Questo Papa si è dichiarato più in sintonia con il suo predecessore che voleva una Chiesa aperta, accogliente, capace di comprendere l’odore delle pecore. Non solo dei fedeli ma di tutti gli esseri umani. Quel “tutti fratelli” del Papa Francesco non può essere apprezzato soltanto dai laici. La fratellanza che si evoca non può essere lasciata cadere in questa fase, dove le distanze tra ricchi e poveri si sta ampliando, compromettendo una giusta transizione che sostenga uno sviluppo anche sociale. Ma quella componente conservatrice, in apnea durante il periodo bergogliano, potrebbe riemergere con il sostegno di un più recente filone del cattolicesimo integralista che ha in Vance e Rublo – pezzi da novanta della compagine governativa di Trump – i propagandisti più sfegatati del connubio potere e religione, dove Dio ovviamente è al servizio a tempo pieno del primo. Sottovalutarne la portata sarebbe un errore; sopravvalutarla sarebbe una sciocchezza. 

Basta arginarla. Per farlo, occorrerà una entrata in campo in modo deciso su tutti i fronti del mutamento, tenendo ferma la barra sulla questione della pace e favorendo il dialogo. La Chiesa di Roma sembra piramidale; i suoi riti – anche se resi più alla portata di tutti, a partire dall’eliminazione del latino durante la messa e la sedia gestatoria per consentire al Papa di   attraversare la navata centrale della basilica di San Pietro – risentono ancora della tradizione millenaria. L’ultimo tentativo di mantenere saldamente al vertice la bacchetta del comando avvenne durante il pontificato di Giovanni Paolo II, quando si diede molta autonomia alle strutture aggregative verticali come Opus Dei, Comunione e Liberazione e altre sparse per il mondo, sottraendole alla giurisdizione dei vescovi. 

Con Papa Francesco, c’è stato un rilancio della centralità vescovile e delle realtà territoriali, specie quelle più periferiche. La Chiesa di Roma è diventata sempre più plurale; articolata sulle esperienze locali e nazionali; con cautela, ma facendo passi in avanti, finanche la questione del diaconato delle donne non è più un tabù. 

In questo fervore innovativo, Papa Leone può calare un messaggio di attenzione e impegno sulle grandi sfide dell’umanità e svolgere un ruolo instancabile per la pace nel mondo, coinvolgendo anche le altre religioni monoteiste. Così, potrà più e meglio del suo predecessore, potenziare la dialettica nella Chiesa, sempre finalizzandola alla ricerca della Verità, alla mediazione fertile tra le varie esperienze, alla proliferazione delle iniziative. E chissà che non le voglia far convergere in un nuovo, coraggioso, planetario Concilio Vaticano III. 

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