Il Capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano: “Troppi ragazzi che incontro non sanno chi siano Falcone e Borsellino. Ma un Paese senza memoria non ha futuro. Se vogliamo contrastare la mafia dobbiamo remare tutti insieme”.
L’autorevolezza si coglie nella rapidità cortese con cui smista, senza negarsi a nessuno, le numerose interruzioni che si affacciano, bussando o trillando via telefono, al suo ufficio al sesto piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Alessandra Dolci è da qualche mese al vertice della Direzione distrettuale antimafia (Dda) e solo alla quarta volta che non riesce a finire una frase, sbuffa tra sé ridendo: «Sembra il call center di un supermercato». Dietro la scrivania assieme a un poster di Castel Del Monte, emblema architettonico di una solida razionalità che le corrisponde, e ai crest araldici, omaggio delle forze dell’ordine, la foto sorridente di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il manifesto simbolo dei magistrati uccisi nell’esercizio delle funzioni: due rose spezzate e l’elenco con i 27 nomi. Il senso di averli lì lo ha spiegato in pubblico, il 18 luglio 2018, commemorando al Pirellone alla Commissione antimafia di Milano, Paolo Borsellino e gli agenti caduti a via D’Amelio: “Capita nel nostro lavoro, di provare momenti di stanchezza, che di solito arriva dopo i periodi di massima tensione, di sentire lo sconforto per un risultato non raggiunto, per una sentenza che non condividi. In quei momenti mi volto, vedo le rose spezzate e sento tornare l’energia e la passione per il lavoro». La storia di Alessandra Dolci, pur poco nota ai più fin qui, dice che non le manca nulla per tenere il vortice sotto controllo: non l’esperienza, 32 anni di magistratura, molti in antimafia, portati benissimo; non le phisique du rôle, per guidare uno degli uffici più esposti.
Dottoressa Dolci, la mafia è un nemico che si rigenera. Pensa mai: “Chi me lo fa fare?”
«Mai. Amo questo lavoro bello e nobile, cerco di farlo al meglio: mi muove questo, non la certezza della vittoria sul crimine organizzato».
Difficile dare fiducia ai cittadini?
«No, ma è importante che capiscano che si deve remare tutti nella stessa direzione. La legalità è faticosa: significa chiedere lo scontrino all’idraulico invece che accordarsi per non pagare l’Iva; significa rispettare le regole del vivere civile, non solo il Codice penale: in questo Paese si va affermando l’idea che tutto ciò che è penalmente lecito sia eticamente corretto, non è così».
Negli anni siamo peggiorati?
«Quando ho iniziato avvertivo più senso solidaristico, specie nelle comunità medio-piccole. Ora vedo una sorta di rassegnazione all’illecito. Le indagini ci dicono che spesso sono gli imprenditori lombardi a chiedere protezione e favori alla ’ndrangheta. Le tre grandi aree di devianza del Paese, crimine organizzato, corruzione ed evasione, a Milano si sono sposate».
Il processo noto come “Infinito”, cui ha lavorato a lungo, ha dato ai cittadini coscienza della ’ndrangheta al Nord e a voi?
«Lo dico sentendomi piccola: dal punto di vista processuale rappresenta qualcosa di simile al maxiprocesso di Palermo per Cosa nostra. L’aver dimostrato che la ’ndrangheta è unitaria, anche se in modo diverso da Cosa nostra e non parcellizzata in ’ndrine separate, permette a chi fa i processi dopo “Infinito” di non dover provare ogni volta che chi appartiene al singolo “locale” di ’ndrangheta si avvale del metodo mafioso, basta provarne l’appartenenza. Le istituzioni non possono dire non sapevo, come facevano prima nonostante le indagini della Procura di Milano negli anni ’90. Anche i cittadini sono più attenti, vogliono capire».
Secondo i dati emersi dalla ricerca presentata da Nando Dalla Chiesa e dalla sua squadra di ricercatori, la Lombardia è la quinta regione per beni confiscati alla criminalità organizzata, tra i beni capita che ci siano aziende, si pone il problema dei posti di lavoro?
«Se lo è posto anche il legislatore, che nel testo unico ha previsto un fondo di garanzia per le imprese sequestrate al crimine organizzato. Da un lato la riemersione nella legalità costa, perché le aziende mafiose fanno concorrenza sleale con prezzi al di sotto del mercato e vivono per questo: ci si chiede se sia giusto che il costo della riemersione gravi sulla collettività. Dall’altro lato, però, la confisca delle aziende ha un significato anche simbolico: non può passare l’idea che dove arriva lo Stato si perdono posti di lavoro. Riadattare gli immobili confiscati per destinarli a fini sociali è impegnativo per i Comuni, ma ci sono begli esempi: a Rescaldina un ristorante confiscato alle ’ndrine ora è gestito da una cooperativa sociale che dà lavoro a persone con disabilità, fantastico».
È lombarda d’origine e di studi, com’è arrivata all’antimafia?
«Destino credo. A Monza durante il mio primo turno esterno da pubblico ministero, avevo 26 anni, la Polizia trovò sette chili e mezzo di esplosivo al plastico in capo a soggetti calabresi. Io da giovane magistrato interrogai subito il proprietario dell’area in cui era stato trovato il bidone, ma mentre parlava con me gli andò a fuoco casa. Quel processo finì perché tutti gli imputati furono vittima di due distinti agguati in una guerra tra famiglie».
Succede di aver paura?
«A me non è mai capitato, forse sono incosciente. Ma è vero che serve forte carica ideale per fare questo lavoro senza provare timore, io mi sento un po’ un soldato. Mi ripeto una citazione di Tacito: “Nel momento della prova ricordatevi di chi vi ha preceduto e pensate a chi verrà dopo di voi” (indica dietro la scrivania la foto di Falcone e Borsellino e l’elenco dei 27 magistrati italiani uccisi, ndr), per questo vado nelle scuole: se nessuno li racconta ai ragazzi, sono morti per niente».
Ha figli?
«No, ma penso ai figli degli altri: un Paese senza memoria non ha futuro».
Milano è l’unica Dda che abbia visto fin qui due donne avvicendarsi al vertice, è stato complicato prendere il posto di una personalità forte e conosciuta come Ilda Boccassini?
«Sono legata a Ilda Boccassini da grande stima e amicizia, abbiamo vissuto anni di magnifica collaborazione in questo ufficio che ha ancora bisogno di contare sulla sua esperienza. È una successione nel segno della continuità, ma avverto la responsabilità, spero di essere all’altezza dei predecessori».
Il testo unico ha riordinato di recente le leggi antimafia. Aiuta?
«È un ottimo strumento contro la criminalità organizzata e dà profitto: non solo mafiosi, anche corruttori, evasori, bancarottieri, truffatori seriali».
Sono crimini transnazionali, l’Europa fa passi avanti?
«Lentamente cresce la collaborazione, il mandato d’arresto europeo è in netto miglioramento».
Da donna e magistrato che effetto le ha fatto il caso del corso per aspiranti magistrati in cui si chiedeva alle donne un “dress code” a base di minigonne in cambio di borse di studio?
«Sono rimasta un po’ sorpresa dall’atteggiamento poco reattivo delle allieve del corso, spero sia dipeso dalla giovane età, spero che se sono diventate magistrati abbiano strutturato il carattere nei valori fondamentali: indipendenza ed equilibrio. Al magistrato servono schiena dritta e cuore saldo, deve resistere alle pressioni».
Il carattere c’è o si impara?
«L’esperienza aiuta: a 23 anni ero molto diversa da ora, ma, per com’ero, avrei mandato a correre chi mi avesse proposto una borsa di studio con un contratto improprio, anche se venivo da una famiglia che non poteva mantenermi a lungo. L’articolo 54 della Costituzione dice che le funzioni pubbliche si esercitano con disciplina e onore. La toga “si porta” anche nel privato: non solo per motivi disciplinari o penali, ma anche di opportunità».
Ha indagato colleghi alla fine condannati. Che effetto fa?
«Vorrei tanto che non mi capitasse mai più».
(*)Da Famiglia Cristiana 19 Luglio 2018