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Chiesa in campo per i deboli contro gli egoismi *

Monsignor Forte, è stato un 2018 percorso da radicalismi e intolleranza. Qual’è la sfida dei credenti, nell’Europa e in un mondo che sembrano chiudersi al dialogo?

«Per un cristiano la sfida è la stessa di Gesù davanti alla Sua morte in Croce: credere nel futuro della speranza che muore. Essere motivato, cioè, oltre tutte le delusioni e le sconfitte della vita: una speranza di bene per tutti, soprattutto per chi umanamente non sembra averne più, e in particolare per i più piccoli e deboli fra noi, senza distinzioni di provenienza o di culture. Il cristiano o è un “prigioniero della speranza”, secondo un’espressione del profeta Zaccaria (9,12) o non è. E l’altro nome della vera speranza è amore: chi ama non si arrende alla morte, chi ama spera contro ogni speranza e si impegna fino in fondo per il bene di tutti: e se oggetto del suo amore è Dio, questa speranza è già pegno e inizio di resurrezione».

Nella nuova “Cantata”, lei si dedica all’incarnazione del Vangelo nel presepe. Ma quel paesaggio corale e toccante che lega il divino all’umano può ancora parlare al presente fatto di nichilismo, di individualismi?

«Il tempo che stiamo vivendo nasce dal naufragio delle pretese totalizzanti della ragione adulta dell’Illuminismo e delle ideologie che ad esso si sono ispirate. Al tempo stesso, però, la fine delle ideologie non è una morte totale: esse sopravvivono in tante forme, perché in fondo esprimevano i sogni di tutti, e il sogno è il controcanto della veglia, il recupero di energie di fronte alle tristezze del presente. E i sogni si nutrono di racconti: perciò, proprio il nostro tempo “post-moderno” ne ha più che mai bisogno. Chi sogna e ha il coraggio di pagare il prezzo più alto d’impegno e d’amore perché il sogno diventi realtà, lo sta già vedendo realizzare. Chi racconta storie di impegno fino al dono totale di sé – come la più vera e contagiosa, quella di Gesù di Nazareth – sta già contribuendo alla nascita di un mondo migliore».

Il Mezzogiorno rischia un passaggio epocale. Soffiano venti di secessione, è in discussione l’autonomia delle regioni del Nord che – a detta di vari analisti – spaccherebbe il Paese. Quale pensa sia il ruolo della Chiesa, di fronte a rischi di disuguaglianza?

«La Chiesa ha il dovere affidatole dal Signore Gesù di denunciare i calcoli egoistici, su piccola o su grande scala, e di stimolare la ricerca e l’impegno per il bene comune, che sia tale per tutti, al servizio di tutti, specie dei più deboli e bisognosi».

In passato, i vescovi del Sud hanno fatto già sentire la loro voce, con documenti forti.

«Sì, la Chiesa ovviamente non può identificarsi con un partito politico o un’ideologia, ma di tutte queste espressioni deve essere coscienza critica, misurando la credibilità delle proposte e dell’impegno in esse profuso sulla carica di giustizia per tutti che vi si riconosce. Compito non facile, che porta spesso a posizioni scomode, anche di denuncia e di sfida».

Il suo rapporto con Napoli è solido. Qual è oggi il ruolo di una metropoli mediterranea?

«Manco da Napoli oramai da quasi quindici anni, e non oserei proporre diagnosi e soluzioni. Tuttavia, da napoletano che si è formato – da uomo, cristiano e sacerdote – nell’alveo della tradizione del pensiero storico meridionale, segnato in profondità dal cristianesimo, ritengo che il futuro di una città crocevia di culture e popoli (fenici, greci, latini, svevi, angioini, spagnoli, austriaci, piemontesi, italiani…), passi attraverso quella che è la legge strutturante, appunto, dei suoi presepi barocchi: la coralità. Detto in altre parole: Napoli non ha bisogno di padri-padroni, ma di un impegno collettivo, in cui ognuno faccia la sua parte, senza distinzioni di età, provenienza culturale e sociale, ideologie o appartenenze politiche. Ci vorrebbero degli “stati generali” della città in cui sia data voce a tutte le straordinarie competenze e capacità che caratterizzano tantissimi napoletani, dall’impresa all’economia, dalla politica alla medicina, dalla letteratura alla musica, dall’arte al gioco, da storie di santità al pensiero filosofico e teologico».

È noto il suo legame con la Sanità, dove molte esperienze di comunità, dalle Catacombe alla Sanitansamble, dallo sport alla casa editrice, hanno mostrato che la cultura può mutare i destini personali e collettivi. Una piccola lezione per il sistema-Paese?

«Va fatta una premessa. Io ho condiviso alla Sanità una grande scommessa con figure come quella di padre Rassello (per fare un solo nome): credere che i poveri hanno diritto alla bellezza, e di impegnarci perché questo diritto sia riconosciuto e promosso. Il che è come dire che il primo ambito per cui impegnarsi è quello educativo: solo quando chi è della Sanità, chi ci abita e ci vive, accetterà di prendere parte all’avventura collettiva di una rinascita, questa rinascita si affaccerà come aurora di un giorno nuovo e possibile. Da credente so che il Signore non lascerà solo chi accetterà di mettersi in gioco per una simile sfida»

* dialogo con Conchita Sannino di Repubblica in occasione dell’uscita de La Cantata dei pastori del Rione Sanità a Napoli. Repubblica.

** Teologo napoletano, arcivescovo a Chieti-Vasto.

 

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