Ha fatto rapidamente il giro del mondo la frase del Papa Francesco, nel pomeriggio di sabato 18 maggio in preparazione della festa di Pentecoste: “Se cadono gli investimenti, le banche, questa è una tragedia. Se le famiglie stanno male, non hanno da mangiare, allora non fa niente. Questa è la nostra crisi di oggi”. La povertà fa fatica a diventare notizia; da notizia, impegno; da impegno, priorità. Ammettiamolo, il declino dell’egoismo godereccio – vero, per pochi, fasullo per gli illusi e gli opportunisti – che la lunga crisi economica ha reso impresentabile, non è stato sostituito da un neo solidarismo garbato e sobrio. Gli ottimisti possono anche intravvedere segni che ne prefigurano una emersione dal sottosuolo della cultura dominante; ma questa resta tuttora egoistica, anche se ha cambiato sembianza. Si veste di paura, di incertezza, di timore del futuro.
Questo egoismo può fare più danni che quello svagato e cialtrone. Specie se a menare la danza, sono sempre quelli della fase precedente. Per tanti motivi, ma uno prevalente; mina la coesione sociale, l’universalità dei diritti fondamentali, la coscienza democratica. Per questo concretissimo motivo, qui come in tutta l’Europa va cambiato lo spartito: il rigore senza la solidarietà genera crisi profonde di fiducia, di partecipazione, di cittadinanza. La redistribuzione del benessere, che è molto di più che la redistribuzione della ricchezza, per troppo tempo sono rimaste al margine della dialettica politica, all’ombra ingombrante di un economicismo senza anima, al meglio, nella dimensione unicamente intellettuale e francamente consolatoria della società dei 2/3. Senza la riabilitazione della essenzialità di mettere le mani nell’aggrovigliata matassa delle disuguaglianze, la questione della povertà resterà imbrigliata nelle logiche della cultura della scarsità, semmai preda della ricerca di vedere la bottiglia mezza piena; è a questo che porta, al di là della volontà dei proponenti, l’enfasi sulla “decrescita felice”.
La lotta alla povertà non può che partire dagli ultimi, quelli che hanno più bisogno di un sostegno della collettività. Ma deve essere intelligentemente solidaristico e universalistico. I soldi che vengono destinati a tale lotta, devono essere considerati dai cittadini non una spesa a fondo perduto, ma piuttosto alla stregua di un investimento sociale che potrà ritornare, nel tempo, con gli interessi alla società. Meglio, quindi, puntare sul Reddito minimo d’inserimento, piuttosto che sul Reddito di cittadinanza. Il primo evoca un dare, da parte della collettività a cui deve corrispondere un’insieme di azioni finalizzate a rendere socialmente ed economicamente autonomi i destinatari di quell’esborso. Il secondo, si affida alla capacità del singolo di spendere bene e in modo fruttuoso i soldi pubblici. Il primo punta a far sentire il singolo parte di un “noi”. Il secondo, non si pone neanche il problema di allargare agli esclusi quel “noi”.
Nel solco della prima interpretazione, va collocata la parte del discorso programmatico del neo premier Letta che, a proposito di welfare, si è spinto a dichiarare: “La riforma del nostro welfare richiede azioni di ampio respiro per rilanciare il modello sociale europeo. Il welfare tradizionale, schiacciato sul maschio adulto e su pensioni e sanità, non funziona più. Non stimola la crescita della persona e non basta a correggere le disuguaglianze. Non occorrono isterismi. Occorre un cambiamento radicale: un welfare più universalistico e meno corporativo, che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi. Per un welfare attivo, più giovane e al femminile, andranno migliorati gli ammortizzatori sociali, estendendoli a chi ne è privo, a partire dai precari; e si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto per famiglie bisognose con figli.” Ma, allora, perché continuare a chiamare “Carta acquisti” la nuova social card che è legge da pochi mesi e non chiamarla per quello che è: un Reddito minimo d’inserimento? Forse, per non dispiacere a quanti, ora presenti nel governo, cancellarono quell’embrione di Rmi che l’allora Ministro Livia Turco avviò come sperimentazione e che se fosse continuato, ora ci farebbe avere migliore presenza nelle classifiche europee?
L’esperienze a noi più vicine, quelle dell’Europa dell’euro, ci dicono che un buon successo del Rmi dipende da due fattori: le risorse e la governance. Con 50 milioni (a tanto ammonta la dotazione della legge “Carta acquisti” limitatamente ad 1 anno) non si può fare molto, specie se non si mette ordine nella spesa assistenziale esistente a livello centrale e periferico che, ovviamente, non può essere alla lunga giustapposta al Rmi. Ma la prima mossa che rende possibile questa razionalizzazione è quella di rendere strutturale l’esistenza del Rmi. Ciò avrebbe conseguenze anche sulla governance. Infatti, il buon funzionamento del Rmi è strettamente legato alla buona amministrazione dello stesso. La selezione degli aventi diritto, il loro continuo monitoraggio, le possibili uscite dalla condizione di miseria, a partire dall’inserimento al lavoro impongono che vi sia un soggetto permanente e qualificato nei territori – una task force pubblico-privato – che dia credibilità all’insieme dell’intervento. Esso, necessariamente, deve vedere l’erogazione del Rmi ma anche di servizi funzionali agli obiettivi che vengono definiti persona per persona, famiglia per famiglia. Questo è l’unico modo serio per evitare di non scadere nell’assistenzialismo passivo e per aprire prospettive concrete di miglioramento della condizione dei poveri.
Finora queste due condizioni non si sono realizzate. Ma è da qui che passa la svolta verso un intervento di riequilibrio delle disuguaglianze nel nostro Paese. Ci sono esperienze locali che dimostrano che ciò è fattibile e produce anche benefici significativi. Mettere a sistema un progetto di questa portata, rappresenta un vero passaggio verso una visione solidaristica della politica italiana.