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Non bisogna chiedere alla politica, bisogna essere la politica

Dopo questa lunga parentesi istituzionale di Roma e Glasgow con tutti i dati scritti, propagandati, forzati, adattati, edulcorati…e dopo aver sentito i telegiornali annunciare la grande mobilitazione di giovani ambientalisti a fronte di pochi capi di stato che promettono, molti che promettono ciò che non è sufficiente e altri che non promettono affatto, possiamo dire che:

  1. i dati ci sono
  2. i governi, le lobby e i movimenti ci sono
  3. la realtà si esprime politicamente, economicamente e socialmente nel produrre molto sviluppo insostenibile e poco sviluppo sostenibile.

In parallelo e come confermano i dati recenti, possiamo aggiungere che: 

  1. c’è il crollo della partecipazione sociale al voto
  2. c’è una politica sempre più autoreferenziale, non determinata dal peso della partecipazione sociale e quindi libera (almeno in gran parte) di perseguire interessi propri e delle lobby.

Analizziamo la situazione e andiamo con ordine.

A proposito dei dati

1. Ci sono e sono di diversa natura. Per sintesi ne riporto alcuni che provengono da quattro fonti. In primis quelli pubblicati dal Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) che prevedono, nei paesi del G20 e con un andamento costante delle attuali emissioni di CO2, una perdita annua di PIL del 4% fino al 2050 e in seguito (dato di sola proiezione) fino all’8% per 80 anni. Tra le cause-effetto principali abbiamo incendi dei boschi, uragani, inondazioni costiere: fenomeni che, oltre alle distruzioni e ai disagi insiti nella loro natura, faranno lievitare, fino a metterli in crisi, i settori del credito e delle assicurazioni legando ulteriormente la crisi ecologica con le crisi economiche.

Infatti, in una lettera appello al Presidente della Cop26 firmata da 111 organizzazioni e da molti accademici, si dice esplicitamente che la crisi climatica può innescare una crisi finanziaria simile a quella della banca Lehman Brothers. In questo caso la crisi verrebbe determinata dal progressivo aumento dei premi assicurativi e delle relative richieste di rimborso-danni. E’ importante rilevare, sempre in ossequio e in ottemperanza al “voglio farmi del male”, che assicurazioni, mondo finanziario e credito investono ogni anno 4.000 miliardi di $ (con un +700 miliardi nel 2020) nel settore dei combustibili fossili corresponsabili dell’innalzamento delle temperature globali.

2. Per l’agenzia di rating Moody’s la transizione alle energie rinnovabili richiederebbe prestiti e investimenti per circa 22.000 miliardi di $.

3. Secondo un’inchiesta di Unearthed (Greenpeace Uk), e in linea con l’esercizio del potere dei produttori/gestori dello sviluppo insostenibile, sappiamo che i Paesi più inquinanti hanno fatto forti pressioni per annacquare le risoluzioni di Cop26 (il vino era già di scarsissima gradazione e con l’annacquamento non arriviamo neanche all’acquarella).

4. Cito alcuni dati del piano firmato da Rifkin su richiesta del Presidente dei senatori democratici USA Charles Schumer, che sostiene in modo esplicito la necessità di uscire dal capitalismo fossile se si vuole arrivare a una reale transizione ecologica ed entrare nell’economia sociale costruita su economia della condivisione, green economy, digitalizzazione dei flussi energetici e dei rapporti economici, mercati transnazionali. Per Consoli (Presidente del CETRI) “Rifkin spiega che il nuovo modello energetico sostenibile, che porterà l’America dalla dipendenza dai fossili alla sovranità energetica con le rinnovabili e l’idrogeno, garantisce non solo una maggiore compatibilità ecologica dei processi produttivi ma anche una loro più alta convenienza economica perché le nuove tecnologie pulite sono su una curva di costi discendente”. Questo nuovo modello di economia sociale poggiata sullo sviluppo energeticamente sostenibile sarebbe in grado di dirottare un’importante quota dei profitti, per ora in disponibilità dei grandi gruppi dell’economia fossile, in salari “arricchendo di poco i molti anziché di molto i pochi”. Si calcolano 320 nuove figure professionali tra produzione e distribuzione delle energie rinnovabili, efficientamento energetico e protezione dell’ambiente; la stima è di 30 milioni di posti di lavoro. Il piano mira anche a riconvertire il settore agroindustriale da filiera lunga a filiera corta e de-carbonizzata. 

A fronte di questi dati, i primi allarmanti e i secondi indicatori di futuro, c’è la realtà prevalente che persegue imperterrita l’insostenibilità dello sviluppo con la sua ineguale ripartizione della ricchezza tra i singoli, i popoli e i paesi. È chiaro che tutto questo crea povertà degli uomini e della natura, emigrazione, … ma la cosa peggiore è che non crea futuro e punisce il presente con incendi, alluvioni, disgeli, innalzamento dei mari e morte delle persone e degli ecosistemi negli equilibri che li caratterizzavano prima delle degenerazioni da economia e capitalismo fossile.

Allora viene legittima una domanda: è sufficiente una politica rivendicativa, che chiede cambiamenti a chi ha prodotto ciò che deve essere cambiato, o dobbiamo perseguire una politica di sostituzione, una politica che si strutturi sul nuovo, che dimostri quali sono i suoi margini di convenienza e di ben-essere? Per dirla con una metafora: se è la volpe che sta a guardia del pollaio, è sufficiente educare la volpe o è meglio sostituirla con un guardiano vegetariano che sia in grado di condurre l’allevamento nella convenienza di tutti e non solo della sua ingordigia? Per la risposta, basta leggere i dati sull’ineguale distribuzione della ricchezza e della salute.

Fuori metafora: la transizione allo sviluppo sostenibile deve avvenire nel cambiamento, non essendoci né i margini né le condizioni per l’evoluzione dallo sviluppo insostenibile allo sviluppo sostenibile. La sostenibilità dello sviluppo, lo sviluppo sistemico e l’economia sociale sono un’altra cultura che si esprime con altri valori, rapporti e metodi nella formazione della ricchezza e di conseguenza nella sua ripartizione, che si realizza con altre tecnologie, con altri statuti scientifici, con altri contenuti e metodi progettuali e, grazie all’informatica, con un altro rapporto spazio-tempo.

È chiara la titanicità dell’impresa; è un’epoca che si deve formare e strutturare, e mai come in questo caso nulla è semplice, nulla è facile, nulla è gratis. Il cambiamento è molto costoso perché non solo va costruito il nuovo ma va smantellato il vecchio, sapendo che lascerà cadaveri industriali, scorie, inquinamenti, difficili da smaltire e da riconvertire.

E’ giusto quindi chiedere che non ci siano i “bla bla bla”; però chiedere è una manifestazione di debolezza: si chiede a chi ha, e chi ha può dare ma anche non dare, o meglio dare ciò che può. Nello stesso tempo non possiamo cadere nel massimalismo di antica memoria, pieno di sconfitte dirette e indirette (verificatesi quando, pur avendo le leve del comando, sono state usate in termini regressivi).

E allora? Perché non indirizzare le nuove risorse verso imprese e attività che formino strutture, prodotti e salari nello sviluppo sostenibile?

 

Dobbiamo iniziare a praticarlo questo sviluppo sostenibile. I nostri giovani sono presenti, scolarizzati, digitalizzati, sensibili al nuovo e allo sviluppo sostenibile. È a loro, alle loro startup, alla loro voglia di riconquistare e ripopolare le aree interne e le aree agricole che devono essere dedicate le risorse. Come sappiamo, le università e i centri ri ricerca sono pieni di progetti inevasi che possono essere messi a disposizione delle istituzioni e gestiti da istituzioni che siano l’espressione di un vasto voto popolare che onori il Paese.

Ma non bisogna chiedere, bisogna diventare i soggetti decisori e attuatori del cambiamento. Bisogna essere ‘politica’.

Quando in un Paese vota il 50% della popolazione, non è poi così difficile. Il 50% che non ha votato, lo ha fatto per disinteresse, sfiducia e quant’altro; è soprattutto numericamente idoneo a creare un’altra tendenza, un’altra cultura, un altro modello di sviluppo.

Anni di smantellamento della politica costruita sui territori hanno creato disastri, tanto che anche i più bravi si organizzano sul chiedere, sulla critica, sulla rampogna, difficilmente sulla partecipazione diretta reclamando la responsabilità delle decisioni e delle azioni politiche.

Per costruire lo sviluppo sostenibile però bisogna avere due cose: una maggioranza politica che lo interpreti e attività economiche e sociali che lo pratichino.

Non può essere un processo riconvertito ma sostitutivo.

Cari studenti, giovani e meno giovani laureati, voi che sapete fare progetti e vedere il futuro, diventate politica. C’è un 50% di non votanti che forse non aspetta altro per ritrovare il piacere del voto.

 

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