Approvata dal Parlamento italiano, la legge di stabilità non ha ancora esaurito il suo percorso. E’ attesa infatti da un ulteriore passaggio, il vaglio definitivo della Commissione Europea in primavera, passaggio non facile soprattutto dopo l’utilizzo di un ulteriore margine di flessibilità con la clausola migranti e dopo le polemiche di questi giorni tra Juncker e il presidente del consiglio italiano.
Date le variabili politiche che determineranno le decisioni della Commissione e del Consiglio Europeo è inutile fare previsioni e discutere sull’eventuale bocciatura e sulle sue conseguenze. Si vedrà e discuterà allora. Nel frattempo si può dare un giudizio su quanto approvato dal parlamento italiano.
Finanziaria espansiva o regressiva, finanziaria di svolta o finanziaria di mance? Se ne è detto e si è letto di tutto su questa legge, a partire dalla solita presentazione “celebrativa” di Renzi per finire con le critiche delle opposizioni e di commentatori illustri anche se qualcuno tra questi ultimi (ma anche nelle opposizioni) dovrebbe confrontare i giudizi espressi oggi con quelli espressi sulla legge di stabilità presentata da Letta-Saccomanni. Credo dovrebbero constatare qualche contraddizione.
Che ci siano numerose “mance” non vi è dubbio, ma pressoché tutte introdotte nei passaggi parlamentari con 150 milioni lasciati alle “liberalità” del Senato e 300 a quelle della Camera. Prassi certamente non positiva, ma in uso da tempo, a cui partecipano anche le opposizioni, o parte di esse (vedere i nomi dei presentatori degli emendamenti), e che, come dire, “agevolano” il passaggio della legge. Ripetiamo prassi non certo positiva, ma che la condanni anche chi ne ha usufruito e chi l’ha usata in anni passati fa sorridere. In ogni caso si tratta dell’1/1,5% del valore complessivo della manovra.
Più seria, anche se spesso faziosa, la discussione sul carattere espansivo o regressivo della manovra. A mio avviso buona parte della colpa dei toni di questa discussione è da attribuire a Renzi e alla sua abitudine di celebrare ed esaltare le doti “magnifiche e progressive” delle sue leggi, cosa che suscita sempre una reazione uguale e contraria. Gli economisti poi, o parte di essi, si scoprono veri e propri sofisti, discutendo se il riferimento va fatto al bilancio dell’anno precedente o a quello di riferimento della legge, al bilancio tendenziale o a quello programmatico, giungendo ovviamente a conclusioni diverse ma perdendo, a mio avviso, contatto con la realtà e dimenticandosi che una legge di stabilità è cosa ben diversa da una discussione in un’aula universitaria.
Significativa poi, è la capacità di alcuni commentatori di scrivere durante l’anno articoli che esortano al rispetto dei Trattati e alla necessità di controllare debito e disavanzo e che poi esprimono giudizi che ignorano o contraddicono quanto scritto prima, così come è sorprendente leggere giudizi che sembrano ignorare completamente i vincoli sottoscritti dai governi passati e, anche, dall’attuale Parlamento.
Vediamo qualche dato macroeconomico. La legge di stabilità nella versione originaria presentata in Parlamento si poneva un obiettivo programmatico di deficit per il 2016 del 2,2% contro un tendenziale previsto a 1,4% in assenza di legge di stabilità. Un disavanzo aggiuntivo, quindi, dello 0,8% che di per sé poneva l’Italia fuori dagli obiettivi di medio termine concordati in sede europea sulla base del Fiscal compact. Per giustificare questa deviazione dagli obiettivi il governo faceva riferimento a due clausole di flessibilità introdotte di recente, la clausola riforme (0,5) e quella investimenti (0,3). In pratica il governo rivendicava da un lato il rispetto delle regole (deficit lontano dal 3% e inizio di un calo del rapporto debito/Pil) e in base al processo di riforme attuate e in via di attuazione e alle necessità economiche affermava il diritto di avvalersi in modo esteso della flessibilità per adottare politiche favorevoli alle crescita.
Due e opposte le principali critiche sollevate dalla legge. Da un lato, l’affermazione che l’allontanamento dalle politiche di austerità avrebbe potuto comportare nel futuro una nuova crisi finanziaria soprattutto in caso di un andamento meno positivo dell’economia italiana e mondiale rispetto a quello ipotizzato dal governo. Ipotesi non peregrina, ma seguire questa critica vorrebbe dire rinunciare da parte del governo, di qualsiasi governo, a proporre politiche di stimolo della domanda e restare attaccati a politiche che hanno chiaramente fallito i loro obiettivi. Sull’altro versante, l’osservazione che il deficit 2015 era del 2,6% e che quindi la manovra non era espansiva ma regressiva dato il nuovo obiettivo del 2,2%. Per essere espansiva, la manovra doveva quindi alzare il disavanzo programmatico sopra il 2,6%, magari sopra il 3%. In teoria ragionamento condivisibile, senza sottilizzare sulle definizioni, ma che, dati i vincoli sottoscritti, mi sento di definire un ragionamento alla Tsipras uno, sapendo che poi si è finiti con un Tsipras due.
E’ certamente condivisibile l’idea che sarebbe necessaria una manovra più forte per rilanciare gli investimenti e per diminuire la pressione fiscale e che per questo sarebbe necessario superare il vincolo del 3%. Gli stessi Alesina e Giavazzi, pur in passato sostenitori delle politiche di austerità, hanno sostenuto la necessità di politiche fiscali espansive finanziate in deficit (fino al 5% annuo). Ma ci si dimentica degli impegni sottoscritti in ambito europeo. Si possono non rispettare, non sarebbe la prima volta, ma poi bisogna essere pronti a subirne le conseguenze, oppure alla fine si corre il rischio di fare il Tsipras due.
Una costante degli ultimi anni è stata la critica ai vari governi di fare poco per la crescita del paese. Critica reale, basta ricordarsi di tutti i cosiddetti “decreti sviluppo” fatti da Tremonti, Passera e Letta, tutti con zero risorse. Monti prima di formare il suo governo affermava di apprezzare la linea di Tremonti in difesa degli equilibri di bilancio ma criticava la mancanza di politiche per la crescita. Il decreto sviluppo di Passera era perfettamente in linea con quelli di Tremonti e così quello di Letta. L’impressione è che sia molto semplice parlare quando non si è al governo e che poi, una volta alla guida del paese, bisogna fare i conti con una dura realtà.
Durante il passaggio parlamentare, e anche in seguito ai tragici fatti di Parigi, il governo ha innalzato ancora il disavanzo programmatico per il 2016 portando al 2,4% con l’utilizzo della clausola migranti. Questo certo non faciliterà il confronto con la Commissione Europea già critica verso l’utilizzo massiccio delle altre clausole.
Giudizio quindi positivo sulla finanziaria? A mio avviso siamo in presenza di una manovra insufficiente a rispondere ai problemi dell’economia italiana e che fa troppo affidamento alla crescita dell’economia mondiale. Sarebbe necessario un forte impulso alla domanda interna sia di investimenti che di consumi. Tutto questo è tuttavia impedito dai vincoli europei. Il governo è quindi costretto ad una politica di “forzatura” di questi vincoli cercando di evitare una rottura che ci lascerebbe esposti a violente crisi finanziarie dato il livello del nostro debito.
Non è quindi la finanziaria “raccontata” da Renzi ma è una finanziaria di necessità che, come quella dello scorso anno, forza i vincoli senza negarli e grazie a queste forzature introducono nel 2015 e nel 2016 misure utili (bonus fiscale, diminuzione dell’Irap, sgravi contributivi, super ammortamento), anche se insufficienti, a sostenere lo sviluppo.
Vi sono poi i singoli provvedimenti. Certamente positivi quelli sul superammortamento, sull’inizio di un Piano di lotta alla Povertà, sul mantenimento, sia pure ridotto, degli incentivi delle assunzioni a tempo indeterminato, sul credito di imposta per il Sud, sulla sicurezza, sulla fiscalità di vantaggio sul salario di secondo livello, sulla riduzione della pressione fiscale sui pensionati.
Positiva e “obbligatoria” la cancellazione dei previsti aumenti delle accise e dell’Iva. Comunque più che una diminuzione è un non aumento della pressione fiscale. E’ un problema che ci trasciniamo da anni, dai 20 miliardi di taglio delle tax expenditures previste da Tremonti nel 2011, ma da attuare negli anni successivi. Monti risolse il problema con l’aumento dell’Imu e le altre misure previste nella sua prima finanziaria. Poi Letta ha rilanciato il meccanismo, un artificio contabile per aggiustare i conti degli anni successivi e rispondere così ai vincoli europei, indicando aumenti di Iva e/o accise da applicare nel secondo e terzo anno del triennio considerato dalla legge di stabilità. Nella finanziaria successiva questi aumenti debbono poi essere sterilizzati per non uccidere sul nascere la sperata ripresa economica. Possiamo dire che il governo deve fare leggi di stabilità con “handicap” risolvendo di anno in anno problemi rinviati e sperando in una crescita che li risolva, almeno in parte, automaticamente. Sarà così anche il prossimo anno.
Vi è poi l’abolizione della Tasi sulla prima casa, vera rottura da parte di Renzi di una tradizione fiscale della sinistra. Da un punto di vista della dottrina, e non solo, non ha alcun senso eliminare l’imposizione sulla prima casa. Esiste in pressoché tutti i paesi ed è la forma di tassazione più consona al finanziamento dei comuni. L’eliminazione della Tasi è però oggi la via più semplice, meno costosa, in termini di perdita di gettito, e quindi possibile per rispondere “politicamente” ad una esigenza di diminuzione della pressione fiscale sulla classe media.
Si può negare questa esigenza o priorità, se la si accetta bisognerebbe quanto meno proporre misure alternative della stessa efficacia quanto meno quantitativa (difficile trovarne una di eguale impatto comunicativo). Nessuno lo ha fatto, indicando ad esempio in sostituzione della eliminazione della Tasi l’eliminazione dell’addizionale Irpef comunale, certamente più equa dal punto di vista redistributivo interessando anche i non proprietari di prima casa. Rivendicare la priorità di una diminuzione della tassazione sul lavoro (senza mai indicare se sulla parte imprese o sulla parte lavoratori) trascurava l’avvenuta riduzione dell’Irap e gli sgravi contributivi e/o non faceva i conti sul fatto che un intervento “avvertibile” sull’Irpef nazionale sarebbe molto più costoso e pertanto oggi improponibile. Limitare la riduzione della Tasi alle rendite più basse avrebbe trasformata questa tassazione in una imposta sulle prime case delle città medie e grandi, la dove l’imposizione è generalmente più pesante. A volte si ha il dubbio che coloro che avanzano proposte simili conoscano poco o nulla della realtà ma agiscano solo in basi a impulsi ideologici.
Una proposta quindi tutta “politica”, difficile da smontare, certamente popolare tra i pensionati e ceto medio. Difficile politicamente tornare indietro nel breve-medio periodo. Si può auspicare che nell’ambito di una revisione globale del sistema fiscale italiano, a partire da una significativa riduzione dell’Irpef sui redditi medi e medio-bassi, sia ripresa in considerazione anche una ristrutturazione complessiva della fiscalità sulla casa, prima e seconda. Le proposte in merito di Vincenzo Visco a riguardo sono oggi, certo, improponibili, ma possono costituire per il futuro un buon punto di partenza.
(*) Esperto di previdenza, ex dirigente generale dell’Inpdap