Ci sono buoni motivi per prevedere che il referendum sui vouchers e sugli appalti non si effettuerà. Certo, nel nostro Paese la ragionevolezza politica ha spesso ceduto il passo alle emozioni o al populismo o alle convenienze momentanee o a tutte e tre contemporaneamente. La pancia ha prevalso sulla testa. Ma non bisogna mai disperare e in questa circostanza l’inevitabilità referendaria non è così perentoria come è accaduto per il referendum sulla riforma costituzionale.
Il primo buon motivo è che la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sull’articolo 18, relativo ai licenziamenti. Questa decisione, ovviamente, non è piaciuta ai proponenti della CGIL ma la sua insindacabilità non credo che sarà messa in discussione dalla Corte suprema europea, qualora Camusso dovesse dare seguito alla minaccia di ricorso. Escludendo dalla contesa referendaria l’articolo 18, questa perde la ragione principale per cui erano state raccolte più di tre milioni di firme. Soltanto una politicizzazione più accesa di quella del dicembre scorso potrebbe portare alle urne più del 50% degli aventi diritto. Ma non vedo all’orizzonte chi è in grado, senza perdere la faccia, di concretizzarla.
Il secondo è che sui vouchers ci sono ragionevoli margini per produrre cambiamenti legislativi tali da soddisfare sia i proponenti il referendum che la Corte Costituzionale che lo ha ammesso. Il lavoro accessorio esiste da tantissimi anni e non regolarlo sarebbe delittuoso. Non conviene a nessuno cancellare l’attuale normativa senza sostituirla con un’altra. Ripiombare nel lavoro illegale, come unica alternativa al lavoro non stabile regolamentato, sarebbe insensato. Tanto vale provare subito a ripristinare una regolamentazione che non estenda a tutti i settori e a tutte le qualifiche questa forma di contratto e che intervenga fondamentalmente a favorire l’emersione, dall’area grigia e nera del mercato del lavoro, di un numero crescente di situazioni.
Il terzo è che, in materia di appalti, il ripristino della responsabilità solidale del committente verso l’appaltatore, qualora quest’ultimo non rispetti i diritti del lavoratore, è sacrosanto. Le deroghe previste nel 2012 hanno reso farraginoso il processo di tutela ma soprattutto hanno favorito la convinzione che il controllo del committente non dovesse essere così pressante, come in precedenza era previsto dalla contrattazione collettiva e dalla legge. Forse, questa è l’occasione per definire il rafforzamento del ruolo di controllo del sindacato e per questa via rendere esplicito che in questa materia non si può tentare, di volta in volta, di tornare indietro.
Il quarto è che se si dovesse svolgere il referendum, vedremmo di nuovo una divisione tra i sindacati più rappresentativi. E questo sarebbe un controsenso. CGIL, CISL e UIL sono reduci da un ciclo di intese con il Governo e di accordi categoriali per il rinnovo di importanti contratti, realizzati unitariamente. Acquisizioni che, per valutazione diffusa, hanno fondamento non tanto in una generica volontà di unità – che di per sé non guasta, dopo tanti anni di distinguo e contrasti – ma in una comune visione del futuro della tutela collettiva. Mettere in ombra questa potenzialità di innovazione e certezza propositiva, soprattutto verso i lavoratori, provocherebbe soltanto grande confusione e sicuro sconcerto.
Ancora peggiore sarebbe uno scenario nel quale, mentre i sindacati si dividono sulla risposta referendaria, il Parlamento definisse soluzioni che provocassero un giudizio positivo della Corte Costituzionale e rendesse inutile il ricorso al referendum. Non è un’ipotesi irrealistica, perché sulle materie in discussione non ci sono tra le forze politiche posizioni rigide ed ha poco consenso l’idea che, per evitarlo, si debba andare ad elezioni anticipate.
L’atteggiamento più apprezzabile sarebbe quello che CGIL, CISL e UIL avanzassero una loro proposta sul lavoro accessorio e sugli appalti e facessero discutere Governo, rappresentanti delle imprese e Parlamento su di essa. La CGIL ne guadagnerebbe in prestigio se non facesse prevalere la pur legittima voglia di realizzare il referendum da lei fortissimamente voluto, sulla prioritaria esigenza di tutelare bene i lavoratori e i disoccupati. La CISL e la UIL – che non hanno partecipato all’indizione del referendum ma hanno sempre sostenuto la necessità di cambiamento della normativa sui temi del lavoro accessorio e in appalto – vedrebbero soddisfatte le loro aspettative. Tutte assieme rafforzerebbero la loro unità e il loro protagonismo.
Il Paese ha bisogno di soggetti ad alta affidabilità ed autorevolezza. I partiti politici mostrano la corda sotto questo profilo. C’è una americanizzazione dell’evoluzione della rappresentanza politica che fa il paio con la perdita progressiva di attrattività. Il leaderismo buono o cattivo, sincero o imbroglione, colto o ignorante sta diventando il vero simulacro della perduta identità partitica. Se non si stabilisce un contrappeso di rappresentanza, che soltanto i corpi intermedi potranno assicurare, il trend della democrazia sarà sempre più ondivago e dannosamente in discesa.