La crisi del settore automobilistico in Italia ne contiene in realtà due. La prima, più generale, accomuna tutto l’automotive europeo. La seconda è una crisi più italiana e più profonda, perché legata alle scelte di delocalizzazione e al tracollo delle vendite di Stellantis, oltre che alle difficoltà dei marchi tedeschi.
Stellantis è la prima emergenza. E da qui, con il doppio obiettivo di rilanciare la produzione e di proteggere l’occupazione, negli stabilimenti dell’azienda e nelle filiere della componentistica, è necessario che il Governo agisca senza indugio. È sacrosanto, dopo tante promesse non mantenute, esigere garanzie sul mantenimento della produzione e dell’occupazione in Italia, non solo quella di alta gamma, ma è altrettanto necessario che il Governo ritiri il taglio del Fondo automotive – 4,8 miliardi che erano destinati ad accompagnare la transizione del settore tra il 2025 e il 2030 -, e che queste risorse siano utilizzate per avviare una serie di Contratti di Sviluppo: uno strumento già rodato, e riconosciuto dall’Europa, da dedicare qui al co-finanziamento di progetti finalizzati all’innovazione di processo e di prodotto nei diversi stabilimenti di Stellantis, coinvolgendo la filiera, vincolati all’impegno a consolidare o incrementare l’organico. In parallelo è urgente che l’esecutivo intervenga per finanziare ammortizzatori sociali in deroga, utilizzabili anche da imprese fino a 15 dipendenti, oggi escluse.
Ma quella di Stellantis, si è detto, è una crisi che va inquadrata anche nel contesto delle difficoltà dell’intero settore europeo dell’automotive. Crisi che nulla ha a che vedere con il Green Deal, nonostante si provi a farne un comodo capo espiatorio. Pesano la stagnazione dell’economia, l’invecchiamento della popolazione, i diversi stili di vita delle giovani generazioni. Ma pesa soprattutto il ritardo accumulato rispetto ai costruttori cinesi e americani, entrambi più avanti di “una generazione” rispetto all’elettrificazione e alla trasformazione delle auto in sistemi di connettività avanzata. Batterie e software si avviano a rappresentare tra il 60 e il 70% del valore di una vettura, e su entrambi i fronti l’Europa ha solo pochi anni per provare a recuperare l’attuale gap.
Non si tratta quindi di rallentare – come qualcuno chiede – ma di accelerare, ed è per questo che alla Commissione Europea stiamo con insistenza chiedendo un Piano d’azione per l’Automotive, accompagnato dalla creazione di un fondo sovrano finalizzato a “spingere” la trasformazione del settore, tanto sul fronte dell’offerta – con il rafforzamento di tutta la supply chain, dalle materie prime rare alla produzione di microchip e batterie, la riduzione il costo dell’energia come per gli altri settori energivori, il potenziamento dell’infrastruttura elettrica e di ricarica, la formazione delle nuove competenze – quanto sul lato della domanda, orientando l’elettrificazione delle flotte aziendali e adottando sistemi di incentivazione come il social leasing testato in Francia. I dazi che l’UE sta negoziando con la Cina servono al massimo a guadagnare un po’ di tempo: quello necessario a mettere sul mercato auto più piccole e soprattutto meno costose, accessibili ad una platea molto più estesa.
La politica, nel frattempo, ha la responsabilità di facilitare il percorso: senza cambiare la direzione di marcia – il 2035 è una data da non modificare – ma evitando di gravarla con sanzioni che andrebbero più utilmente trasformate in investimenti per la decarbonizzazione. Se il 2035 non va messo in discussione, è ragionevole invece aprire una riflessione sulla neutralità tecnologica. La tecnologia dell’elettrico è net zero solo se ci si ferma al “tubo di scappamento”. Se mi misurassero le emissioni di CO2 dell’intero ciclo di vita – dall’estrazione dei minerali rari alla produzione delle batterie, dal mix di generazione dell’energia elettrica in ogni Paese, allo smaltimento – lo zero non sarebbe più zero e altre tecnologie potrebbero concorrere a raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione più sfidanti. Senza contare che nel 2040 i veicoli in circolazione in Europa comprenderanno ancora circa il 45% di auto a combustione interna o ibride. Una penetrazione dei carburanti a basse emissioni – come i biocarburanti avanzati e gli e-fuels – potrebbe: a) compensare una diffusione dei veicoli elettrici più lenta del previsto; b) dare ossigeno alla filiera della componentistica più legata ai motori endotermici; c) allentare la dipendenza dalla Cina, al momento totale per le componenti del motore elettrico. E con ciò, forse, mitigare il rischio geo-politico che una scelta di esclusività tecnologica porta inevitabilmente con sé.
*Vice Presidente della Regione Emilia Romagna