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Oltre al fiscal impact occorre un well-being compact

L’Europa ha annaspato nella crisi

Le cifre spesso sono spietate. E danno un giudizio praticamente senza appello sulle politiche. Gli Stati Uniti, paese dove si è originata la crisi, hanno largamente recuperato la caduta. Rispetto ai livelli del 2007 il Pil americano era cresciuto nel 2013 del 6% rispetto ad un  calo di quasi due punti dell’insieme dell’area Euro; la pagella dell’Italia è drammatica con una caduta di 8,5 punti. La Germania, grazie alla sua capacità di stare sui mercati più forti per le esportazioni e di tenere compressi i costi, approvvigionandosi nei paesi dell’Est, ha avuto una crescita del 4,2%; risultato importante, che consente di tenere la disoccupazione largamente sotto i livelli storici, ma non paragonabile a quello americano e, soprattutto, con una divaricazione rispetto ai vicini partner, che fa scricchiolare la costruzione europea. E nel biennio 2014/2015 ci si aspetta che la crescita del Pil dell’area Euro, ma anche quella della Germania, sia la metà di quella degli Stati Uniti. Sempre che l’economia tedesca non risenta troppo delle tensioni tra Ucraina e Russia e degli altri fattori di rischio in Estremo Oriente. 

Il paradosso è che la politica economica europea, che ha fatto una scelta per la stabilità, rimane molto legata alla domanda delle altre aree e da questa dipende per raggiungere tassi di crescita appena accettabili. Lo sviluppo è stato sempre visto come legato semmai a politiche dell’offerta, promuovendo, quando si era capaci di farlo, la competitività dei fattori della produzione, mentre quelle della domanda sono state orientate al controllo dei disavanzi pubblici. Il traino delle esportazioni è stato del tutto insufficiente, e non poteva essere che così, per quei paesi che avevano un bagaglio troppo pesante nei conti pubblici; e, d’altra parte, la recessione ha finito per peggiorare queste criticità e non a risolverle. Oggi c’è l’ulteriore aggravante della deflazione con prezzi fermi o in ribasso; un fattore che rischia di sbriciolare la ripresa e che aggrava la condizione dei paesi / soggetti più indebitati; ovvero allontana ancora di più la meta del risanamento.

Gli Stati Uniti hanno fatto scelte economiche profondamente diverse con politiche sia di bilancio che monetarie espansive. La depressione è stata contrastata con investimenti pubblici e la FED ha assicurato credito abbondante all’economia a costi bassissimi, ai limiti della temerarietà. Ma, senza esaminare i fattori di criticità interni ed internazionali, il tutto ha funzionato e la ristrutturazione ha perfino premiato la competitività, innescando una reindustrializzazione, su cui pochissimi avrebbero scommesso. Ad indicare che le politiche della domanda possano avere esse stesse, se trainano i settori più innovativi, un dividendo in termini di capacità di stare sui mercati.

 

Ma l’Italia non può fare a meno dell’Europa (e dell’Euro)

Molte persone che hanno problemi di condominio pensano di poterli risolvere andando a vivere in una casetta unifamilare. Magari sobbarcandosi l’onere dell’acquisto di un nuovo immobile, assai più lontano dal luogo in cui si lavora o si hanno i propri interessi, esponendosi a solitudine e maggiori costi fissi e di trasporto. Allo stesso modo alcune forze politiche e una robusta corrente di pensiero ritengono di poter risolvere la questione uscendo dall’Euro  o addirittura dall’Europa. Chi scrive pensa che non si può uscire dalla realtà in cui si è immersi, che è straordinariamente connessa e multi dipendente. E l’Europa è stata ed è il nostro progetto per la pace. E l’unica possibilità di contare in un mondo che è tanto più grande di noi e difficile da gestire.

Ma anche la versione debole che “si limita” a volere l’uscita dalla moneta unica ignora i costi di questa scelta. Che sono innanzitutto politici; la scelta del rafforzamento dell’integrazione europea e dell’euro fu fatta negli anni novanta perché la governance della “casetta unifamiliare” era insoddisfacente, per usare un eufemismo, con inflazione elevata e conti pubblici allo sbaraglio. Si può immaginare che non si ritorni a quella condizione? 

E poi ci sono i costi economici a breve e a medio termine della scelta. La rottura dell’Euro per i paesi deboli significherebbe una riduzione dei redditi interni, in particolare di quelli a reddito fisso, per via della maggiore inflazione connessa alla svalutazione della moneta. Potrebbero forse avere maggiori esportazioni, ma l’onere del nuovo debito andrebbe alle stelle. I tassi di interesse aumenterebbero per la svalutazione effettiva,  per quella attesa e per il rischio connesso ad una minore disciplina rispetto a quella imposta dalla partecipazione all’area euro. D’altra parte i titoli esistenti, pubblici o privati, denominati in Euro, dovrebbero restare tali per non violare arbitrariamente un impegno preso con i sottoscrittori e configurare un’insolvenza. In definitiva aumenterebbe il rischio di default. 

Già in prospettiva dell’uscita i risparmiatori ritirerebbero i loro depositi e i loro titoli in banca per convertirli in altre valute e per portarli in altri lidi prima della conversione forzosa in lire svalutate e prima dell’ipotizzabile chiusura delle frontiere. Abbandonare la moneta unica causerebbe danni gravissimi ai mercati obbligazionari e quindi alle banche e di conseguenza alle imprese, specie quelle più indebitate.

Le retribuzioni, le pensioni e tutti i redditi fissi verrebbero ridenominati in via automatica nella nuova valuta subendo in pieno la svalutazione e l’inflazione relativa. Gli altri redditi avrebbero un margine più ampio di discrezionalità, ma in uno scenario economico certamente peggiore e sfavorevole.

 

Un nuovo patto europeo

Non ci sono scorciatoie, ma certo i condòmini dell’Unione dovranno valutare l’esperienza più recente e l’Europa che uscirà dalle elezioni sarà chiamata definire una nuova politica economica. C’è necessità di un nuovo patto europeo, che abbia come obiettivo un percorso per lo sviluppo sostenibile, nella sua accezione completa che coinvolga gli aspetti ambientali, ma anche sociali e finanziari. Ma occorrerà, già all’indomani delle elezioni di maggio, evitare le sabbie mobili della deflazione con interventi sia nella politica monetaria, che in quella di bilancio.

Nel medio termine si tratta di portare l’agibilità della Banca Centrale Europea al livello delle altre grandi banche centrali, anche tenuto conto della realtà federativa europea; va superata l’attuale frammentazione del credito nell’area Euro, che crea ingiustificate asimmetrie tra operatori attivi, con uguale merito, in diverse realtà. E’ essenziale una rapida implementazione di un’efficace Unione Bancaria. Nell’immediato la BCE deve poter procedere al ricorso agli strumenti non convenzionali attraverso l’acquisto diretto di pacchetti di titoli emessi dalle banche, aventi come sottostante i prestiti delle piccole e medie imprese. La Banca centrale, come già ha fatto quella inglese, darebbe liquidità a fronte di pacchetti di prestiti alle imprese. Una tale misura darebbe più credito a questi soggetti, che hanno sofferto e continuano a soffrire della scarsa liquidità. Non a caso il FMI valuta che il maggior credito all’economia porterebbe in Italia, come negli altri paesi in sofferenza, ad una crescita del PIL del 2% .

Ma cambiamenti rilevanti dovranno riguardare soprattutto la politica di bilancio. Questo non deve significare l’abbandono dell’obiettivo della stabilità, che ha a che fare con quello della sostenibilità. Deve, semmai, portare ad utilizzare strumenti più duttili e a margini più ampi. Il fatto è che l’ austerità non funziona o funziona al contrario se non prevede una politica economica di rilancio, innanzitutto dei paesi più forti, e poi di nuove sfide comuni, che rafforzino l’economia e la società europea. E cioè investimenti comuni nella ricerca, nell’innovazione, nella formazione, nella qualità ambientale, nelle reti e nell’energia. E per i paesi in situazione di crisi dovrà essere possibile ricorrere a politiche espansive della domanda, superando il pregiudizio antikeynesiano. 

La proposta degli accordi sia multilaterali che bilaterali, che scambiano riforme con flessibilità di bilancio va approfondita. Si tratta del meccanismo per il quale i paesi dell’Unione si impegnano a realizzare pacchetti di riforme in cambio di agevolazioni finanziarie oppure nel caso di riforme che abbiano un impatto sul bilancio venga prevista un’esenzione o una dilazione del conteggio relativo ai vincoli europei. La traduzione che è stata data finora di questo tipo di accordi per i paesi che hanno chiesto assistenza finanziaria ( Grecia, Portogallo, Irlanda ) è stata molto liberista e volta spesso alla riduzione delle retribuzioni dei paesi coinvolti. Ma se l’obiettivo è la crescita della competitività, se ne può dare una versione diversa, che punti piuttosto alla crescita della produttività, con tutte le sue implicazioni nel medio – lungo termine. Occorre essere consapevoli che la latitudine dei temi coinvolti è molto ampia; dalla pressione fiscale al mercato del lavoro; dalla pubblica amministrazione al sistema educativo; dalla contrattazione agli ammortizzatori. Come bisogna sapere il ruolo del Governo e del Parlamento è importante, ma non autosufficiente; è essenziale per rispondere a questa sfida la funzione delle parti sociali, in un contesto cooperativo tra tutti gli attori. 

Il nuovo patto europeo non deve essere fatto contro la Germania, ma per lo sviluppo ed il lavoro in un’Unione più coesa ed efficace. I paesi del Sud Europa devono con realismo prendere atto che quelli del Nord hanno una giustificata sindrome del “Paga Pantalone”, ovvero l’avversione a essere caricati di oneri per interventi disparati di sostegno a questo o a quel paese con meccanismi decisionali che potrebbero bypassarli. Questo richiede una reciproca responsabilizzazione in un gioco che deve essere a somma positiva.

 

I parametri più che stupidi sono incompleti; ci vuole un well-being compact

Si dice spesso che la politica economica europea è sbagliata, perché i parametri di riferimento, Maastricht e Patto di Stabilità, sono stupidi; cioè poco intelligenti, forse sbagliati. Chi scrive ritiene che più che errati occorrerebbe considerarli insufficienti, perché tutt’altro che esaustivi della realtà della politica. Le ragioni dell’Europa e della stessa moneta unica vanno molto al di là della stabilità finanziaria ed anche economica. Bisogna ampliare il target, perché le persone vi si possano riconoscere. Ed il target, con indicatori appropriati, deve essere il benessere e la qualità della vita nell’Unione. La Commissione Stiglitz – Sen – Fitoussi ci ha richiamato qualche anno fa alla necessità di strumenti statistici “oltre il PIL”, che favoriscano analisi più complete sul benessere collettivo ed essenziali per definire le politiche e per valutarne gli effetti. “Cosa si misura”, infatti, influenza il “cosa si fa”. Se i nostri sistemi di misura sono incompleti, saranno le stesse politiche ad essere sbagliate. Limitarsi a guardare soltanto ad alcuni indicatori, significa, di fatto, costituire una gerarchia all’interno degli obiettivi e delle linee di azione; scegliere alcuni indicatori (sulla stabilità finanziaria piuttosto che sulla crescita del capitale umano) significa dichiarare che le politiche che quelli rappresentano sono essenziali, mentre le altre sono tendenzialmente residuali. 

Negli orientamenti della politica dell’Unione questo è particolarmente evidente. La scelta del rigore della finanza pubblica è basata su indicatori specifici, che non solo organizzano la politica economica, ma assumono principio fondativo. Pareggio di bilancio e  convergenza del debito assumono un rilievo primario. Non perché nelle varie Costituzioni, e tra tutte in quella italiana, non siano scritti e leggibili propositi “altri” di tenuta sociale, ma perché questi obiettivi sono generici ed indefiniti, mentre quelli europei sono specifici, determinati ed anche rafforzati da sanzioni.

Va risolta, dunque, la contraddizione tra intenti forti e deboli. E’ noto che in questi anni gli studi sulla qualità della vita hanno fatto molti progressi. Con la costruzione del BES, il sistema di indicatori di Benessere Equo e Sostenibile, l’Italia è, grazie al lavoro fatto da CNEL e ISTAT, all’avanguardia nell’uso politico delle misure del progresso. Questa è un’ottima ragione per parlare di tali questioni nel semestre di Presidenza italiana. Da qui si potrebbe muovere per introdurre nella governance europea, assieme al fiscal compact, un well-being compact, cioè un sistema di indicatori, che segnali attentamente ai politici e a tutta la società l’andamento del benessere collettivo nell’Unione.  E puntare a riconciliare anche in questo modo  gli europei con l’istituzione, che è  il loro progetto di pace e benessere

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