So che molti pensano – sinceramente o non, ha poca importanza – che evocare il passato è tempo perso, tanto “ora è tutto un’altra epoca”. Io sono fermamente convinto, con Keynes che “non so cosa rende un uomo più conservatore, se ricordare solo il passato o solo il presente”. Infatti, la storia non è soltanto pura reminiscenza, ma un importante aiuto alla cronaca per fare, come ripeteva spesso Carniti, “possibilmente errori nuovi, se proprio si vuole correre il rischio di errare”. A maggior ragione, questi suggerimenti valgono per quanti si considerano riformisti, perché non diventino degli stagionati e forse neanche tanto inconsapevoli, conservatori, in un mondo affamato di futuro.
A valle del Congresso della CISL e dello scambio di messaggi, veramente franchi, tra Fumarola, Bombardieri e Landini mi sono chiesto a che punto fosse l’identità complessiva del sindacalismo italiano. Perché alle menti e agli occhi delle lavoratrici e dei lavoratori, a quelli dell’opinione pubblica e a quelli dei decisori pubblici e privati, quel che conta è la visione d’insieme, prima ancora delle specificità di ogni singola organizzazione.
Nella storia repubblicana del sindacalismo italiano si possono delineare tre stagioni, abbastanza lunghe per dare a ciascuna una caratterizzazione prevalente. La prima, pioneristica e generativa, contrassegnata da un abbrivio forzatamente unitario in una sola organizzazione, la CGIL, voluto sostanzialmente dai partiti che avevano guidato la Resistenza. Durò poco, per forti divergenze politiche (c’era la guerra fredda) e differenti convinzioni sul ruolo del sindacato. Nacquero la CISL e la UIL ma assieme alla CGIL non rappresentavano granchè; la cultura associativa non era diffusa, né conosciuta: venti anni di corporativismo fascista avevano lasciato il segno.
Di Vittorio, Pastore e Viglianesi avevano idee diverse, ma su un punto convergevano: marciare divisi e colpire uniti. Sia verso il padronato che verso il Governo in carica. Riuscirono nell’intento di ottenere risultati importanti per la difesa della dignità dei loro rappresentati, sia pure discutendo a distanza – a volte siderale – sulle prospettive dell’iniziativa sindacale. Se tuttora sono personaggi evocati, è perché seppero fare scelte, talvolta radicali, non tanto per il presente quanto per il futuro, non tanto per interesse di parte, ma sempre con una visione da rappresentanti di tutto il mondo del lavoro.
La seconda stagione è quella che iniziò nei primi anni sessanta e si chiuse all’alba del 14 febbraio 1984, passato alla storia come giorno dell’accordo di San Valentino. Furono due decenni di grande crescita del peso sociale del sindacato, di formidabili conquiste resistenti all’usura del tempo, di imponenti adesioni alle tre confederazioni, di decisive resistenze al terrorismo nero e rosso, di generosi tentativi per raggiungere l’unità sindacale. “Uni e trini” era la battuta che prevaleva per dare una spiegazione immaginifica, soprattutto alle delegazioni sindacali straniere che venivano a curiosare questo fenomeno esistenziale, perché culturale e politico nello stesso tempo (e spesso per copiarlo).
Si era ad un passo dal realizzare il sogno di una nuova generazione di sindacalisti delle tre confederazioni, in quel momento guidate da Benvenuto, Carniti e Lama. Ma l’offensiva del PCI di Berlinguer, concentrata su due cavalli di battaglia della CISL – prima lo 0,5% del salario dei lavoratori da mettere in un Fondo per l’occupazione nel Sud e poi la concertazione per ridurre l’inflazione a due cifre degli inizi degli anni ottanta – in realtà si dimostrò finalizzata a non far procedere il processo unitario. L’inflazione fu sconfitta con l’accordo di San Valentino; il PCI rimase traumatizzato dall’insuccesso del referendum abrogativo di quell’intesa fino a quando cambiò nome; ma chi pagò il prezzo più alto fu il sindacato che dovette prendere atto della frantumazione della prospettiva unitaria.
La terza stagione è stata la più lunga, quella che praticamente ha attraversato l’ultimo quindicennio del secolo scorso e si è distesa sul primo quarto del secolo in corso. E’ una stagione controversa, altalenante tra tentativi di ripresa dell’unità d’azione (la punta più alta si raggiunse con gli accordi di concertazione con i Governi Amato del 1992 e Ciampi del 1993) e momenti di distinguo significativi, con intese separate sia contrattualmente (nei metalmeccanici in modo particolare) che con le istituzioni centrali e periferiche. Anni difficili sul piano economico, sociale e politico all’interno e sul piano internazionale, con il sindacato sulla difensiva anche perché il settore manifatturiero era sottoposto ad una offensiva distruttiva per effetto sia della globalizzazione dei mercati e sia dell’indebolimento della capacità innovativa dell’imprenditoria nostrana.
Nello stesso tempo, nel sindacato cresceva un’attitudine di buona e riconosciuta professionalità nella gestione dei servizi alla persona (in via diretta o in cogestione con le controparti private), surroganti competenze del pubblico: dalla formazione, all’assistenza, dalla gestione delle conseguenze delle ristrutturazioni, alle pensioni. Un irrobustimento di risorse umane e finanziarie che hanno potenziato l’apparato sindacale e reso meno pesante l’effetto negativo dell’accelerazione del turnover degli iscritti e della maggior diffusione delle piccole e piccolissime imprese.
Questa solidezza ha consentito di gestire senza affanni una stagione di “mezze vittorie” per il mestiere del sindacato. Sia chiaro, non sono da disprezzare, ma vanno chiamate con il loro nome. Tanto è vero che sul piano contrattuale è cresciuta una grave questione salariale, soprattutto nei settori del terziario dove la produttività è bassissima e sul terreno della politica economica si sono succedute intese su problematiche come il fisco, la sanità e le pensioni mai risolutive e inevitabilmente vocate alla necessità di riprenderle sempre alla prossima tornata di discussione della legge di bilancio.
In questo contesto, negli ultimi anni si è affermata una strana teoria attuata da una pratica rigorosa. Unità sul piano contrattuale da parte delle categorie, perseguita con determinazione e anche successo nei rinnovi contrattuali (salvo qualche smentita nel pubblico impiego), distinzione di iniziative sulle questioni generali, non tanto sull’impostazione iniziale quanto nella gestione dei confronti con il Governo e nelle convinzioni terminali. Le intese, come gli scioperi confederali non unitari, sono diventati un’abitudine, con scarsi effetti in termini quantitativi e qualitativi della rappresentatività delle tre confederazioni. Quest’assetto delle relazioni sindacali si differenzia molto da quello tradizionale della fase ascensionale del sindacato: contrattazione a doppio livello, dialogo sociale con controparti e Governo, concertazione nei momenti di forte emergenza (non a caso durante la pandemia è stata di grande efficacia e compattezza).
Il dialogo sociale, nel primo scorcio di secolo, ebbe uno schiaffo clamoroso con il Job Act del Governo Renzi (con luci e ombre nel merito, scorbutico nel metodo); ma se non ha avuto seguito (nel quadriennio passato non c’è stato né con la Confindustria, né con i Governi) è anche perché tra le tre Confederazioni non c’è stata sintonia su come dovesse essere rilanciato. Mentre la UIL si è messa cautamente da parte, rimanendo su un terreno sostanzialmente rivendicativo, per qualificare il proprio ruolo, la CGIL di Landini si è inventata dei referendum persi in partenza. A sua volta la CISL ha puntato sulla legge della partecipazione al governo delle imprese che, entrata in Parlamento con molta forza propositiva, ne è uscita azzoppata, tanto che Daniela Fumarola l’ha definita correttamente una “soft law”. Su questa legge, va sottolineato un flop del PD che si è limitato ad astenersi nel voto, mentre avrebbe potuto imbarazzare la maggioranza di Meloni presentando emendamenti identici alle parti “tagliate” della proposta della CISL.
Proprio quelle due vicende, al di là dell’enfasi con cui sono state vissute dai protagonisti, dovrebbero essere considerate un punto di chiusura di una stagione di ricerca di identità diversificate e quindi prive di criteri generali di gestione delle grandi questioni, fra l’altro sempre più condizionate dai mutamenti internazionali. Senza una ridefinizione di ciò che può essere il dialogo sociale nella transizione ambientale e digitale, in un contesto caratterizzato dagli sconvolgimenti commerciali mondiali e dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale, finanche la contrattazione può sfuggire di mano alla logica confederale e approdare ad un neocorporativismo aziendale e categoriale, privo di contenuti solidaristici e di coesione sociale generalizzabili.
Ma soprattutto il confronto con le controparti private e i Governi rischia di essere sempre più una variabile dipendente di valutazioni di opportunità, di collocazione partitica piuttosto che politica, di convenienza momentanea, di una autonomia decisionale falsata dalle circostanze. Né sarà in grado di delineare una robusta strategia sui temi critici posti dall’Europa, che non può essere più vista come altro da noi. Così, la strada della subalternità diventa scivolosa e può travolgere anche le intenzioni più nobili.
Il dialogo sociale nazionale ed europeo deve diventare una scelta politica e non di mero metodo, come la contrattazione non è soltanto una technicality ma una tessitura sempre più raffinata e mutevole di norme e regole di cittadinanza nei luoghi di lavoro e come la concertazione che non è un’astanteria da pronto soccorso, ma un segno di coesione sociale e politica di alto livello. Ci sono questioni, come il fisco, la sanità, l’educazione, l’assetto produttivo in chiave europeo – per citare le più importanti e comolesse – che non possono essere risolte con i pannicelli caldi. Ha ragione il prof. Heyets (di cui si produce in questo numero il suo pensiero): “la politica sociale è meno frequentemente percepita come un meccanismo di ridistribuzione delle risorse e più come la base di un nuovo contratto sociale, che definisce resilienza, dignità e coesione sociale.”
Il sindacalismo confederale è su questo terreno riformatore che deve mettere in campo proposte strutturali nuove, non mutuate dal passato. E farlo cercando la massima convergenza tra le confederazioni. Anche le più belle idee, se non sostenute dalla forza della convinzione e del consenso dei lavoratori, cercate insieme dalle tre confederazioni, possono restare lettera morta.
Se questo cambio di marcia succedesse, sarebbe un gradevole punto e a capo. Senza abiure da parte di nessuno. Molte forze, sociali e politiche, che hanno scommesso in questi anni sulla divisione sindacale dovranno preoccuparsi della perdita di questa rendita di posizione. Nello stesso tempo, le dicerie, le insinuazioni, le cadute di stile, le forzature di andare oltre le radici delle singole confederazioni verrebbero cancellate dal prestigio della ridefinizione del ruolo che deve avere il più forte, credibile corpo intermedio in grado di rappresentare una parte significativa di una società in profonda trasformazione.
In sintesi, ciascun sindacalista che è in prima linea deve chiedersi “vuoi essere qualcuno o vuoi fare qualcosa?” (Jacques Delors).