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Tre strade per conquistare ”gli invisibili”

Più si accumulano statistiche, indagini, pubblicazioni, inchieste, cronache (spesso criminali), più aumenta il convincimento che una quantità crescente di giovani è candidata a diventare la parte più consistente degli “invisibili” della società italiana, prossima ventura. Acculturati o no, urbanizzati o no, integrati o no rischiano di affollare inutilmente quell’ascensore sociale che non riesce a sollevarsi da terra. Per di più, si abbassa l’età della consapevolezza di tale prospettiva e s’innalza la disponibilità allo scetticismo e alla ricerca di vie alternative (non tutte legali) ai normali percorsi di studio e lavoro che a loro vengono proposti.

Ovviamente, questi fenomeni hanno spessori differenziati e decrescenti man mano che si scende dal Nord verso il Sud d’ltalia. Ma salvo qualche realtà territoriale, nessun paese o città sono estranei a questa problematica. La coesione sociale, quindi, è messa a dura prova ovunque e riguardando i giovani in modo diffuso, scombina consolidate convinzioni circa il vivere comune, mina l’aggregazione familiare e comunitaria, annebbia le prospettive dell’evoluzione individuale e collettiva.

Se questo non è un problema politico, non saprei dire cos’è la politica. Lasciare la palla ai sociologi, agli educatori, alle famiglie, al volontariato e considerare una questione fastidiosa e rinviabile, la mera osservazione dei dati della disoccupazione giovanile, della povertà e degli abbandoni scolastici, del consumo della droga e degli alcolici, per non dire del dilagare del bullismo e della violenza fino a quella armata, è un atteggiamento rinunciatario e irresponsabile.

Eppure siamo a questo punto. Al massimo qualche risposta debole e frammentata, come quelle previste dalla recente legge di stabilità. Un richiamo, vissuto come vuoto e finanche cinico, alla “necessità della crescita” (con alle spalle quindici anni di decrescita infelice, c’è poco da essere credibili). Uno sguardo fugace verso il diffondersi di forme alternative di lavoro e di welfare che la malavita organizza senza essere efficacemente contrastata. Un ascolto spesso formale e discontinuo non dico della parte più disincantata e rabbiosa dei giovani, ma di quella che vorrebbe agire in positivo ma si sente disarmata.

Rimontare questa incapacità di rendere politicamente robusto e visibile l’impegno verso i giovani, non è facile. Il fondo non sembra che si sia toccato. Non ci sono rivolte all’orizzonte. Ma il fatto che tutti gli osservatori e analisti dicono che la maggior parte dei giovani hanno votato no al referendum costituzionale è almeno un indice di una collera che monta, travolge anche ogni questione di merito e si estende anche ai non aventi diritto al voto. Per questo non bisogna far degenerare la situazione, esasperare gli animi e spingere verso atteggiamenti estremistici o alternativistici chi finora non ha scelto questa strada.

Non l’assistenza ma il lavoro deve essere il principale sbocco da rendere credibile.

Spacciare il reddito di cittadinanza come la soluzione è sconsolante, arrendevole, pauperistica. Non si può dire a un giovane, ti do 1000 euro (ammesso che ci siano le risorse per attuarlo) e poi te la sbrighi da solo. Bisogna dirgli che c’è una politica fatta di tante scelte che lo porteranno ad avere un lavoro. E se bisogna prendere atto che ci vuole tempo per attuarle e che nel frattempo avanzano i robot che eliminano i lavori ripetitivi e semplici, allora bisogna creare ponti e formare i giovani per occupare posti di lavoro intelligenti.

Un ponte per tutti: il servizio civile obbligatorio per i giovani ultra diciottenni, di durata medio- lunga in servizi di pubblica utilità o servizi familiari, estendendo l’esperienza volontaria in atto e ampliandola dal terzo settore al settore pubblico.

Proporre di occuparsi del prossimo per un breve periodo della propria vita non solo è formativo per sé stessi ma fa crescere la produttività del sistema economico e sociale.

Quanto ai lavori intelligenti, la prima cosa utile da fare è quella di avere una scuola e una università che complessivamente e non sporadicamente mette nelle condizioni di far corrispondere ciò che si impara a ciò che serve nel mercato del lavoro. Per ottenere questo risultato, chi insegna deve essere messo a suo agio e non sentirsi obsoleto e chi apprende deve saper scegliere con consapevolezza cosa studiare. Per gli uni e per gli altri occorrono strumenti nuovi, efficaci e flessibili per non scoprire che forse soltanto uno o più master supplementari potranno colmare le lacune accumulate durante il ciclo educativo.

E se tutto ciò non basta per dare lavoro a tutti, bisogna sin d’ora puntare ad una ridistribuzione del tempo di lavoro individuale, sia nel settore privato che in quello pubblico, in cambio di un maggiore utilizzo degli impianti e delle strutture lavorative.

Questo deve avvenire con grande adattabilità rispetto ai settori e alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro, incentivando contrattualmente e legislativamente l’assunzione dei giovani.

Forse, cosi facendo, il tasso di attenzione e di condivisione dei giovani potrà crescere, l’attrazione verso l’illegalità scemare e la rabbia trasformarsi in energia creativa.

 

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