1) C’è un dato largamente condiviso e statisticamente documentato: la produttività del lavoro non cresce da tempo ai ritmi degli altri paesi concorrenti ed in presenza di una dinamica del costo del lavoro sostanzialmente allineata alla media europea, la dinamica del costo lavoro per unità di prodotto penalizza la competitività delle nostre imprese. Questi indicatori aggregati nascondono però, una varietà di situazioni. In uno stesso settore, in una stessa area geografica ci sono imprese espansive che hanno investito, innovato, esportato, traducendo i benefici in maggiori profitti ed imprese che si sono difese con i tagli sui prezzi e sui costi dei fattori produttivi (in primis il lavoro) in un’ottica di sopravvivenza che non ha impedito un forte restringimento della nostra base produttiva. Le imprese difensive sono tuttora la maggioranza per cui il problema che si pone è di individuare le cause di questa scarsa vitalità produttivistica e gli spazi recuperabili nel nuovo contesto economico in continua evoluzione.
2) Il tema della produttività e del suo legame con i salari è sempre stato al centro delle relazioni contrattuali. L’incentivazione della produttività del lavoro ha trovato larga applicazione con l’istituto dei premi collettivi legati alla crescita dei volumi produttivi negli anni dell’espansione fordista con la successiva trasformazione nei più articolati premi legati alla realizzazione degli obiettivi aziendali nelle fasi successive di rallentamento della crescita in un mercato sempre più aperto e competitivo.
Questa esperienza di collegamento salari- produttività ha trovato applicazione nelle imprese manifatturiere di maggiore dimensione, scontandone nel tempo il progressivo ridimensionamento ed è entrata nell’ombra con il nuovo orientamento delle parti sociali a favore della concertazione sociale che ha privilegiato gli approcci a livello macro economico. In ogni caso la dimensione economica dei premi collettivi aziendali non ha mai assunto una massa critica tale da influire sulla politica di impiego e di redistribuzione del reddito.
3) Una politica di rilancio del legame salari-produttività deve partire dai punti di forza che pongono ancora il nostro Paese al secondo posto in Europa come peso dell’industria manifatturiera. Punti di forza sono le imprese che si sono poste sulla frontiera dell’innovazione e che sono entrate nella catena del valore a livello internazionale (le nostre multinazionali tascabili) ed il protagonismo di alcuni territori che hanno valorizzato i vantaggi competitivi locali (qualità del prodotto e del lavoro) più difficilmente replicabili nei paesi emergenti, in un contesto di istituzioni locali efficienti e cooperative.
Un primo obiettivo è quello di estendere le “buone pratiche aziendali” al resto della struttura produttiva.
Analisi ormai concordi rilevano che il divario di produttività, in termini comparativi europei, non è tanto attribuibile ad una minore intensità capitalistica (meno investimenti in macchinari) quanto al più limitato stock di conoscenze e di capacità manageriali, anche a causa di una struttura produttiva molto frammentata. Un ritardo che rischia di aggravarsi in presenza delle nuove tecnologie digitali (estensibili anche alle imprese minori) che pongono problemi di integrazione dei nuovi sistemi nei processi tradizionali, con paralleli adattamenti negli assetti organizzativi e nella gestione del personale.
Per quanto riguarda la leva territoriale, il processo di innovazione diffusiva trova ostacoli ancora maggiori, come dimostra l’allargamento delle disuguaglianze in termini economici e sociali tra le diverse aree del Paese.
Ai tradizionali divari infrastrutturali ed istituzionali si sono aggiunti i più difficili accessi alle innovazioni tecnologiche da parte dei territori più decentrati e meno attrezzati anche perché le nuove tecnologie digitali, orientate più ad obiettivi di intrattenimento che di produzione, sono meno attente nel fornire soluzioni laddove la domanda è meno remunerativa.
4) Una constatazione inconfutabile è che il circolo vizioso bassa produttività-bassi salari, di cui soffre il Paese, non è stato scalfito neppure in presenza di alcune condizioni favorevoli di origine internazionale (basso costo del denaro, del petrolio) presentatesi nel 2015-2016.
Occasione mancata per ridurre i nostri divari in termini di produttività del lavoro e di occupazione, le due variabili alla base della crescita del PIL. I recenti dati del DEF (Documento Economia e Finanza) confermano una ripresina in termini di PIL e di occupazione, con una residuale debole crescita della produttività per addetto: 0,2 per il 2015, 0,3 atteso per il 2016. Le proiezioni estese al 2019 non evidenziano accelerazioni di rilievo, confermando uno scenario macro-economico ancora lontano dal recupero delle condizioni pre-crisi.
Anche il documento programmatico del Governo per attivare nuova crescita non prevede un riallineamento agli standard europei in termini di PIL, di produttività del lavoro ed occupazione al 2019, nonostante più elastici vincoli europei in materia di bilancio pubblico.
5) Il problema che si pone è quello di accendere nuovi motori di sviluppo per evitare l’ulteriore contrazione della base produttiva ed occupazionale. Si tratta di valutare in quale misura la strategia, a livello macro-economico proposta dal Governo, possa essere accelerata nei suoi risultati incrociandosi con un nuovo dinamismo promosso dal basso. Le parti sociali, soprattutto a livello locale, possono dare un contributo alla diffusione dell’innovazione produttivistica nelle aziende e dei territori in ritardo. Qualcosa si sta muovendo in tal senso, almeno al livello di documenti recentemente elaborati dalla Confindustria, in occasione dell’elezione del nuovo Presidente e dai Sindacati in tema di riforma del sistema di Relazioni Industriali.
Il nuovo dato emergente è di carattere culturale. Un nuovo approccio alla produttività, che ormai superi la vecchia tesi, fatta propria dalle aziende meno innovative (la maggioranza) che la flessibilità del lavoro e la riduzione del costo del lavoro siano le leve per sopravvivere nel nuovo mercato concorrenziale. Smentita dai dati statistici questa convinzione per l’impossibilità di competere su questo piano con i paesi emergenti, emerge un nuovo approccio alla produttività del lavoro colta nella sua dimensione multifattoriale in cui rientrano in considerazione variabili che riguardano investimenti, nuovi modelli di business, innovazioni organizzative, qualità professionale e ruolo del lavoro. Conseguente è la convergenza su nuove regole contrattuali che favoriscano un decentramento “ordinato” per rimettere in moto la regola aurea del rapporto salari-produttività. Più produttività e più salari è il dato di convergenza, convalidato dal fatto che in presenza di una rigidità verso il basso dei salari garantita dai contratti nazionali, la mancata produttività del lavoro penalizza la competitività, sia di sistema sia quella dei singoli sottosistemi produttivi.
6) Il problema è quello di tradurre i documenti in programmi ed azioni nella presunzione che il previsto salto culturale divenga patrimonio comune delle imprese e dei sindacati, valorizzando i punti di forza e correggendo i punti di debolezza, in un contesto di maggiore reciproca fiducia. Mettendo da parte, almeno per ora, le difficoltà del nuovo percorso legate alla individuazione dei fattori costitutivi della nuova produttività qualitativa oltre che alla sua misurazione, un problema preliminare è la ripresa di un dialogo sociale fra Governo e parti sociali che si concretizzi in strategie, a livello macro e micro economico, in grado di incidere positivamente sui processi che alimentano la produttività del lavoro.
7) Il campo più maturo di sperimentazione è quello a livello di azienda e di contrattazione aziendale. Un salto di qualità può essere indicato dal passaggio da una produttività del lavoro realizzata ex post, oggi penalizzata da reciproche rigidità ad una produttività programmata ex ante, a cui legare un previsto beneficio salariale. Si tratta di variabili già incluse nei processi di programmazione aziendale, oggi orientate alla creazione di valore per gli azionisti, da estrapolare a sostegno di una maggiore propensione produttivistica dei lavoratori. Un parametro da gestire consensualmente può essere una dinamica del costo lavoro per unità di prodotto da mantenere in linea con le esigenze di competitività delle imprese nel mercato di riferimento. Un parametro da definire a livello di singola azienda in termini di reciproche responsabilità dell’impresa e del lavoro (di cui tener conto nelle successive fasi di redistribuzione della maggiore ricchezza prodotta evitando di scaricare sul lavoro le inefficienze attribuite al capitale) e da interpretare alla luce delle altre molteplici variabili, interne ed esterne che concorrono a determinare la “performance” complessiva di impresa.
Il previsto coinvolgimento partecipativo dei lavoratori, sollecitato dalle nuove tecnologie digitali deve essere salvaguardato sia che i benefici della produttività siano tradotti in aumenti salariali, sia in nuove forme di welfare aziendale, non escludendo compensazioni in termini di riduzione degli orari di lavoro a vantaggio di una maggiore occupazione. Una “ordinata” diffusione della contrattazione aziendale potrebbe anche favorire un’evoluzione del ruolo del contratto nazionale, con ciò eliminando una questione oggi controversa.
8) L’altro “driver” di sviluppo è il territorio, come già detto, la cui vitalità si è espressa nel tempo con la creazione dei distretti industriali, delle filiere produttive, delle reti di impresa. Processi di aggregazione tra le imprese minori per usufruire dei vantaggi della messa in comune di servizi (acquisti, accesso ai mercati esteri, progetti di ricerca) a cui sono riconducibili risultati, in termini di produttività e di redditività, superiori alle imprese indipendenti. Ciascuna impresa ha mantenuto la sua autonomia imprenditoriale e la sua struttura produttiva ed organizzativa, non creando spazi per forme di contrattazione né aziendale né extraziendale legate a queste nuove forme aggregative.
Un campo nuovo di sperimentazione contrattuale può essere creato da due condizioni. L’applicazione delle nuove tecnologie digitali che, intervenendo nella riorganizzazione dei processi produttivi, aprano nuovi spazi alla riattivazione del rapporto salari-produttività. L’inclusione nella contrattazione decentrata di una nuova autorità delle parti sociali per intervenire sulle politiche del lavoro nei mercati locali per quanto riguarda la formazione del personale, la gestione della mobilità, la politica di sostegno ai redditi, l’integrazione degli immigrati, la lotta al sommerso. Temi sui quali né imprese né sindacati hanno possibilità di intervento a differenza di altri paesi europei ove le parti sociali concordano con le strutture pubbliche dell’impiego programmi ed azioni quando poi non intervengono con una gestione diretta. Un istituto già esistente è l’Ente Bilaterale da rafforzare nelle sue competenze e da raccordare con una forma di contrattazione extraziendale estesa ai processi di aggregazione che riguardano le imprese minori. Un ambito territoriale che può aprirsi ad una evoluzione positiva del rapporto produttività-salari.
9) In conclusione le parti sociali possono dare un contributo nell’ambito della loro autonomia, alla diffusione innovativa e produttivistica perché la nostra industria possa riposizionarsi nel nuovo scenario internazionale.
Se guardiamo però alle esperienze dei paesi più avanzati con i quali ci confrontiamo sul piano competitivo, c’è un terzo attore, lo Stato, che interagisce con le parti sociali, attraverso strategie di politica industriale, quale strumento ordinario di politica economica. Ciò avviene attraverso “istituzioni” di cooperazione, ai vari livelli dell’attività economica, strumenti di raccordo fra le domande che provengono dal basso e le risposte dall’alto, con cui si rafforza, tra l’altro, la legittimazione della politica. Da noi sussistono ostacoli storici ad un gioco cooperativo fra Stato e parti sociali e fra le diverse parti sociali.
Prima si avvertirà che questa povertà della dimensione istituzionale è una diseconomia di sistema non meno rilevante di quelle normalmente evocate (infrastruttura e così via) prima si creeranno le condizioni per un esame obiettivo del perché la produttività fatica a crescere nel nostro sistema economico e su quali fattori occorre intervenire per riattivarne la dinamica nel suo collegamento con i salari.
(*) Presidente dell’Isril