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Per un’ Europa leader della pace

Nel mondo ci sono 64 conflitti armati. Riguardano in molti casi guerre intestine, ma che hanno spesso sullo sfondo collegamenti internazionali ben precisi. Altre sono guerre in cui sono ben identificati gli invasori e gli invasi. Poi ci sono quella a noi vicina, in Ucraina che grida vendetta per il cinismo con cui è condotta dalla Russia e quella più impensabile fino a poco tempo fa in Palestina, dove in gioco non c’è solo la difesa di un territorio ma la sopravvivenza di un’etnia. Entrambe molto preoccupanti e cariche di incognite, innanzitutto per l’Europa.

Però, nonostante ci siano voci sempre più autorevoli, allarmate dall’avvicinarsi del rischio di una guerra più estesa in Europa, indotta dalla solita Russia, l’opinione pubblica italiana ma anche europea sembra essere indifferente o sconcertata. Siamo da 80 anni in pace; a partire dalla mia, le generazioni successive hanno una cognizione libresca o cinematografica della guerra in casa. Se si sono mobilitate è per guerre lontane, nel Vietnam, in Iran, nell’ex Jugoslavia. Ora per l’Ucraina e la Palestina. 

Mai preso, finora, in seria considerazione che potesse riguardare l’intera Europa. Ma Mattarella, che non parla mai a vanvera, non perde occasione per indicare il rischio di “baratro” in cui potremmo precipitare se non agiamo ora, per tempo, introducendo anticorpi sufficienti a indebolire prima ed escludere poi che il “bellicidio” diventi necessità.

Tusck, premier polacco, alla Conferenza di Varsavia del 29 settembre ha detto esplicitamente che “c’è la guerra, una guerra non voluta, a tratti strana, di nuovo tipo, ma pur sempre guerra”.

Un uomo di cultura giuridico-costituzionale come Gustavo Zagrebelsky alla domanda del direttore del quotidiani La Stampa Andrea Malaguti “siamo destinati alla guerra?” ha risposto “la prospettiva c’è. C’è addirittura chi ne fa l’elogio e la considera inevitabile perché c’è sempre stata” (La Stampa, 28/09). 

Sul piano economico, c’è un costante arretramento degli investimenti green nel mondo a favore di quelli negli armamenti. Disinvoltamente, il Ministro Urso, ai tavoli di crisi del manifatturiero italiano, presenta sempre come ipotesi di riconversione produttiva quella di produrre armi e munizioni, per altro di vecchio stampo.

Sul piano sociale, in questi giorni, gira la notizia che il finanziamento del programma GOL dell’Unione Europea, destinato alla formazione delle nuove leve del lavoro, verrà eliminato. Le risorse sarebbero destinate a ingrossare la dote per il riarmo comunitario oltre alle risorse che ogni Stato dell’Unione si è impegnato ad incrementare per il finanziamento della Nato. 

Come si sa, molti indizi fanno una realtà, ma la gente non ne è ancora pienamente consapevole. Tutti i soggetti istituzionali, politici e sociali dovrebbero porsi il problema. Se una guerra, che potrebbe diventare mondiale si farà, questa sarà in Europa. Restiamo il teatro più instabile e più ghiotto per tutti quelli che immaginano un mondo eterodiretto da poche grandi potenze militari, economiche e politiche. Nessun Paese europeo è annoverabile come tale. Allo stato, tutti i Paesi europei messi insieme sono soltanto un grande mercato di consumatori, ma non di produttori post industriali e per di più militarmente non autosufficienti. 

C’è quindi la necessità di orientare l’opinione pubblica sulla necessità ineludibile di non farsi trascinare in una situazione di drammatica sconfitta della propria cultura solidaristica e democratica; quella che ha consentito, ben oltre l’Europa, di far crescere un mondo con più benessere materiale ma anche con una visione sociale più umanistica emblematicamente rappresentata dal Welfare State.

Ma va detto che non basta diventare più autonomi militarmente. Certo, ci vuole un esercito europeo vero, frutto di un concreto coordinamento degli investimenti, della integrazione produttiva (ci sono 26 modelli di carri armati in Europa, pochi missili e aerei autoctoni, in fatto di droni l’Ucraina è la più attrezzata, non abbiamo un sistema di scudo spaziale), della riqualificazione e ringiovanimento delle forze armate (l’età media dell’esercito italiano è di 50 anni, parola del ministro Crosetto). Se ci si ferma a questa urgenza, la gente non capirà la vera portata della svolta che si sta chiedendo di fare.

L’Europa deve avere un progetto più robusto per farsi capire, riempiendo di contenuti strategici quattro fronti. Senza consistenza seria del progetto, si rischia di ingrossare le file di chi sostiene che è meglio chiudersi in sé stessi, in nome di una sovranità nazionale da quattro soldi e chi è pacifista nel senso che vuole starsene in pace. 

Il primo fronte è appunto, quello della pace. La deterrenza garantita da un crescendo di armamenti non è più una difesa contro la guerra. Questa ormai si fa con una cassetta degli attrezzi enormemente più sofisticata. Non si combatte più solo per mare, per cielo, per terra ma anche nello spazio, con il dominio della conoscenza e dell’informazione. Ci vuole una visione meno tradizionale e più complessa.  L’Europa deve dimostrare che vuole essere in pace con tutti. Per questo deve proporre una nuova “Conferenza di Helsinki” che abbia come obiettivo principale quello di creare una diversa Nato che preveda la partecipazione di tutti gli Stati possessori di armi nucleari e cybernetiche. Soltanto così si può assicurare al mondo intero che la prevenzione dei conflitti sia l’unica, vera modalità per assicurare la pace.

Il secondo fronte è quello della qualità dello sviluppo e dell’autonomia continentale sulle nuove tecnologie. L’Europa è nella stessa condizione dell’Italia degli anni 50, quando decise di restare amica degli Stati Uniti ma non subalterna. Fondando l’ENI, aprì l’offensiva contro le 7 Sorelle petrolifere americane che volevano assolutamente essere le uniche fornitrici di petrolio nel nostro Paese. L’Europa deve avere un grande produttore di tecnologie digitali, perché non basta una buona regolamentazione sull’uso dei social e delle banche dati. Non bisogna correre il rischio che un Musk possa mettere in ginocchio l’economia europea e con essa la stessa democrazia, decidendo a suo piacere di staccare la spina alle sue piattaforme digitali.

Il terzo, riguarda il futuro del Welfare State. Da esso dipendono le tendenze demografiche di lungo periodo, la qualità della formazione continua per il lavoro, la tutela della salute delle persone, ma soprattutto la natura pubblica e universalistica di queste erogazioni. Occorrono scelte lungimiranti che non possono essere delegate ai singoli Stati. Come occorre accompagnare la loro innovazione e potenziamento con finanziamenti adeguati. In presenza di Stati indebitati più o meno consistentemente, soltanto la UE è in grado di sostenere questo obiettivo di civiltà.

Un quarto fronte è caratterizzato da un rafforzato impegno alla promozione e difesa della democrazia nel mondo, alla trasversalità di questo obiettivo strategico nelle politiche commerciali, economiche di sviluppo e di difesa.  La UE dovrebbe attivamente lavorare per sostenere le organizzazioni democratiche che lavorano per promuovere questo obiettivo, superando gli ostacoli burocratici in atto. La democrazia non si esporta, ma può essere alimentata da progetti di lunga lena, costruiti in collaborazione stretta con i Paesi individuati e competenze professionali non predatorie. 

Questi quattro fronti vanno considerati il minimo sindacale per rendere concreta la prospettiva di un’Europa effettivamente unita e far diventare comprensibile la necessità di abbandonare la regola dell’unanimità delle decisioni. Un’Europa che vuole vivere in pace con tutti e non considera inevitabile essere trascinata in guerra. 

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