Il continuo litigio fra gialli e verdi al governo comporta il rischio di perdere la memoria delle cose, di quelle recenti e di quelle lontane. È il caso della travagliata vicenda delle finanze capitoline: non è la prima volta che esse diventano terreno di operazioni e scontri politici nazionali. Se si desidera capire è necessaria un po’ di pazienza, perché la questione intreccia temi di tipo tecnico con una complessa stratificazione storica degli eventi.
Salvini ha bloccato in Consiglio dei Ministri le norme che consentirebbero il superamento della gestione commissariale dei debiti del Comune di Roma. La motivazione è tutta politica: si tratterebbe di un favore a vantaggio di una sola città, le norme andrebbero estese agli altri Comuni.
Questa motivazione non sta in piedi. Salvini si dimentica che il vero favore a Roma fu fatto fra 2008 e 2010 da un governo di cui la Lega faceva parte: lo scorporo del debito dal bilancio del Campidoglio.
Immaginate una famiglia che acquista una casa e paga un mutuo, mettiamo, di 500 euro al mese. Immaginate poi l’arrivo di uno zio d’America che si accolla il mutuo. Qual è il risultato? La famiglia avrà 500 euro in più al mese da spendere. Proprio questo fece il governo Berlusconi: un’operazione che gettò uno stigma politico nei confronti dell’allora capo dell’opposizione in Parlamento (nonostante il debito procapite del Campidoglio fosse inferiore a quello dei Comuni di Torino e Milano) e concesse allo stesso tempo un bel regalo alla giunta di centrodestra appena insediata.
Un regalo che non si è limitato al debito storico di tipo finanziario (mutui e obbligazioni), perché a questo furono aggiunte molte altre voci di spesa corrente (passata e futura) che, da un lato, amplificarono la massa debitoria scorporata dal bilancio capitolino, e dall’altro lato costituirono ulteriori risparmi (una tantum) per il bilancio comunale.
Da allora la situazione del Comune di Roma è anomala e atipica, non paragonabile a quella di nessun altro Comune italiano. Il debito viene gestito da un ufficio commissariale emanazione del governo centrale: chiedere l’estensione delle norme cosiddette “salva Roma” agli altri Comuni non ha senso.
Il punto è che l’operazione di sgravare il Campidoglio dal debito storico, e da altri impegni e pagamenti, ha prodotto effetti nefasti. Archiviarla e chiudere la gestione commissariale è cosa buona e giusta.
Il principale effetto negativo è che l’allentamento del vincolo di bilancio ha portato fra 2007 (ultimo bilancio con le firme di Veltroni e Causi) e 2012 un aumento del 28 per cento della spesa corrente (ripeto e sottolineo: ventotto per cento, da 3,2 a 4,1 miliardi di euro), come ha certificato la Ragioneria Generale dello Stato nel 2014. Un fatto che è in evidente contraddizione con la martellante campagna sul “buco” di bilancio che avrebbero lasciato le amministrazioni precedenti al 2008.
La verità è che i margini di manovra ottenuti grazie allo scorporo del debito furono usati per espandere assunzioni nelle aziende e altre spese ordinarie, e non per investimenti e manutenzioni. Da lì comincia una tendenza al degrado delle infrastrutture urbane che non è stata ancora invertita e che, dopo dieci anni, ha assunto proporzioni drammatiche.
In molti casi le spese aggiuntive sono affluite a settori ed entità duramente colpite negli anni successivi da provvedimenti giudiziari, anche prima della deflagrazione del “mondo di mezzo”. Una volta esaurito l’effetto dei risparmi una tantum il bilancio, gravato da nuove spese permanenti, ha deragliato su uno squilibrio di 800 milioni fra entrate e uscite annuali. Furono necessari provvedimenti emergenziali, adottati nel maggio 2014, che diedero vita a un piano di rientro triennale incardinato sui giusti binari dalla giunta Marino e concluso, sugli stessi binari, dalla giunta Raggi.
Anche il “salva Roma” del 2014 ebbe vita difficile. Un primo decreto cadde sotto Natale 2013, per effetto di una divisione all’interno del centrosinistra e del Pd sul grado di “rigorismo” che avrebbe dovuto essere imposto a Roma in cambio degli aiuti centrali. Un secondo decreto cadde nel febbraio 2014 in seguito all’ostruzionismo dei 5 stelle (come si cambia fra quando si fa l’opposizione e quando si hanno responsabilità di governo!).
Questo serve a ricordare che Roma è sempre argomento scottante nell’arena politica nazionale, città guardata con sospetto, forse mai pienamente riconosciuta come simbolo del paese, ancora in attesa dell’attuazione di quanto scritto in Costituzione, e cioè di una legge ordinaria che ne regoli il funzionamento in qualità di capitale della Repubblica. Scrivo la “c” minuscola non per caso, perché è così in Costituzione, mentre la maiuscola di Roma Capitale ha un sapore provinciale e burocratico che contribuisce ad aumentare distanze e diffidenze fra Roma e resto d’Italia.
Ci sono altre tre conseguenze negative dello scorporo del debito capitolino e della sua gestione “separata”. Primo, una brusca caduta di trasparenza del bilancio, appesantito da complicate e incomprensibili poste di dare e avere fra gestione ordinaria e gestione commissariale. Per non parlare dei debiti fuori bilancio, il cui riconoscimento prima del 2008 avveniva con delibere da approvare in Consiglio comunale, quindi con piena trasparenza e obbligo di motivazione e rendicontazione, mentre dopo il 2008 avviene con semplici provvedimenti amministrativi che restano rinchiusi nelle stanze della dirigenza di Palazzo Senatorio e dell’ufficio commissariale.
Secondo, i 500 milioni di euro (300 a carico dello Stato e 200 a carico dei contribuenti romani) stanziati annualmente per finanziare la gestione commissariale sono troppi e generano avanzi positivi. È la conseguenza della sovrastima, del “rigonfiamento” artificiale, della massa debitoria definita nel 2010.
Nella relazione 2017 dell’ufficio commissariale al Parlamento la stima complessiva di questi avanzi è di 638 milioni di euro. In qualche caso una parte dell’avanzo è stato trasferito al Comune, per esempio 50 milioni nell’estate 2015 per l’avvio degli interventi per il Giubileo straordinario in attesa dei fondi dello Stato, arrivati soltanto a dicembre (a Giubileo già cominciato).
Nella maggior parte degli ultimi dieci anni però queste risorse non sono state retrocesse, “riconsegnate”, al Comune. La gestione commissariale del debito di Roma ha, in sostanza, finanziato lo Stato: un clamoroso paradosso. Basterebbe questo per sostenere l’utilità di superare la separazione fra le due gestioni.
Infine, ci sono molti dubbi su come questo ufficio governativo abbia lavorato nei primi anni dalla sua istituzione, diciamo fino al 2014. Alla fine del 2007 il costo medio del debito comunale era il 4,7%, leggermente più basso di quello del debito pubblico nazionale (4,8%). Oggi è invece molto più alto (4,2% contro meno del 3%). Siamo davvero sicuri che una gestione del debito da parte degli uffici finanziari del Campidoglio, come quella che esisteva fino al 2008, non avrebbe saputo fare di meglio?
Quelle gestioni, di cui sono stato il responsabile politico per sette anni, vengono oggi criticate per l’emissione di un titolo obbligazionario a tasso fisso del 5% effettuata fra 2003 e 2005. Chi avanza queste critiche dimentica che si tratta del tasso di riferimento per i BTP a lungo termine in quel periodo. Quel titolo non era nuovo debito ma la conversione di debito storico, di una miriade di vecchi mutui che provenivano dai decenni precedenti, da prima dell’aggancio dell’Italia all’euro, con tassi del 7-8-9 per cento, qualcuno anche sopra il 12.
L’operazione, che insieme ad altre produsse risparmi per circa 150 milioni di euro all’anno, fu effettuata seguendo rigidamente i metodi e le procedure che il Ministero dell’Economia e delle Finanze adottava per la gestione del debito pubblico nazionale, compreso l’affiancamento (obbligatorio per legge) del titolo a tasso fisso con contratti derivati del tipo interest rate swap per fornire una protezione assicurativa dalle oscillazioni dei tassi d’interesse.
Dopo la vittoria del centrodestra a Roma e in Italia e durante la campagna mediatica sul “buco” di bilancio del Campidoglio, si può bene immaginare quanto quei contratti finanziari siano stati passati al setaccio alla ricerca di errori o di altro da utilizzare nello scontro politico.
A distanza di dieci anni credo di poter dire pubblicamente che sia la magistratura ordinaria sia quella contabile aprirono specifici procedimenti, inevitabili alla luce della larga evidenza politica e pubblica che la questione aveva assunto. Poiché mi presentai nei vari casi di fronte ai diversi magistrati per dichiarazioni spontanee, posso anche testimoniare che le istruttorie e le indagini furono approfondite e serie, altamente professionali.
E che non augurerei a nessuno dei miei amici l’esperienza di comparire di fronte a uno dei due procuratori della Repubblica maggiormente competenti in Italia in materia di finanza, assistito da agguerrite e altrettanto competenti squadre di sostituti procuratori e di ufficiali della Guardia di Finanza. Né di fronte a un procuratore della Corte dei Conti non solo competente, ma anche dettagliatamente informato e documentato.
Dato che negli ultimi giorni leggo affermazioni giornalistiche o dichiarazioni di esponenti politici al limite della diffamazione, vorrei ricordare che quei procedimenti furono chiusi in fase istruttoria, senza neppure arrivare all’iscrizione nel registro di garanzia.
Racconto questi fatti non tanto per me, in grado di difendere in ogni sede necessaria la mia onorabilità, ma per Fabrizio Ghisellini, dirigente del Ministero dell’Economia e delle Finanze che in quegli anni lavorò in Campidoglio sulla ristrutturazione del debito e che è prematuramente scomparso pochi giorni fa. Un funzionario di grande competenza, un civil servant con elevato senso dello Stato, un uomo colto, raffinato, di non comune intelligenza.
Insomma, la gestione del debito capitolino prima del 2008 mi sembra sia stata più professionale, trasparente e produttiva di risultati di quella sopravvenuta con l’ufficio commissariale, almeno nei primi anni della sua vita. Il mondo è cambiato dopo la Grande Recessione, e ancora di più è cambiato in Europa con il quantitative easing e gli acquisti di titoli pubblici da parte della Banca Centrale Europea. Nessuna copertura assicurativa avrebbe potuto, nel 2003-2005, neutralizzare una caduta dei tassi di interesse dal 5 a meno dell’1 per cento. Ma forse ci si sarebbe potuti muovere in modo più accorto.
Nessuno a Palazzo Chigi e al Ministero dell’Economia, le strutture governative da cui dipende l’ufficio commissariale per il debito di Roma, ha fino a oggi chiarito perché siano state chiuse le coperture assicurative del titolo obbligazionario City of Rome durante il 2011: proprio nel periodo peggiore, mentre imperversava la crisi del debito pubblico italiano.
Una possibile, e inquietante, spiegazione è contenuta nella già citata relazione al Parlamento: la vendita delle coperture assicurative in una fase di caduta dei titoli pubblici italiani potrebbe derivare dall’ “aspettativa di riacquistare sul mercato i titoli emessi dal Comune di Roma a prezzo inferiore, in quanto il venir meno del versamento della garanzia reale avrebbe potuto spingere al ribasso il valore del titolo sul mercato, a causa della percezione di un maggiore rischio di insolvenza”.
Un azzardo, insomma. Una scommessa su ulteriori ribassi dei titoli pubblici italiani. Si potrebbe chiosare: una scommessa contro il paese. Una scommessa perduta, visto che in seguito alla drastica manovra di stabilizzazione di Monti e all’intervento di Draghi il valore dei titoli pubblici italiani ha ricominciato a crescere. Il titolo City of Rome ha riguadagnato la parità nel 2014 e ha viaggiato negli anni successivi al 120% del valore nominale. Quello che sembra inaudito è che l’azzardo possa essere stato compiuto da un ufficio governativo, in una situazione di totale assenza di trasparenza e di controllo.
Si vede bene allora che sono tanti i motivi per superare l’anomalia dentro cui il Campidoglio vive da dieci anni: aumento di trasparenza e leggibilità del bilancio; gestione più efficiente di quella garantita dall’ufficio commissariale; recupero di risorse che, pur destinate a Roma, tornano inopinatamente allo Stato. Mentre Roma, per giusta conseguenza di una elevata base fiscale, è il principale contributore al Fondo di solidarietà nazionale dei Comuni con versamenti annuali oscillanti fra 230 e 350 milioni di euro: un fatto totalmente dimenticato da chi ne propone una visione come mera città “parassitaria”.
Per quanto riguarda il titolo obbligazionario, si potrebbe cinicamente concludere che dopo i pasticci combinati dalla gestione commissariale dello Stato è giusto che sia lo stesso Stato a rimediare. Nelle norme che erano state predisposte e poi stralciate c’è però un altro elemento interessante. È a prima vista un particolare tecnico, ma getta nuova luce sulle distorsioni provocate dall’operazione 2008-2010.
Nella “massa debitoria” furono inseriti i pagamenti arretrati del Comune verso i fornitori per prestazioni rese e ancora non saldate. Nel 2013 fu varato il provvedimento per la velocizzazione dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, con sponde finanziarie dello Stato a vantaggio di Comuni e Regioni.
Ne sa qualcosa Nicola Zingaretti: la Regione Lazio era uno dei peggiori e più lenti pagatori d’Italia, ma grazie al saggio uso di quell’opportunità, di cui il Lazio è stato il maggiore beneficiario in tutto il paese, è riuscita a ridurre in modo significativo i tempi di pagamento. Il Comune di Roma invece non fece neppure domanda per accedere alle risorse messe a disposizione dallo Stato, visto che i suoi arretrati di pagamento stavano a carico della gestione commissariale.
La quale d’altro canto non era prevista nella norma di legge e non aveva titolo per partecipare al riparto dei fondi statali. Ebbene, una parte della copertura finanziaria per la norma “salva Roma” deriva da quei fondi. A ben pensarci si tratta di una scelta inoppugnabile: Roma non sta sottraendo niente a nessuno, visto che non aveva in passato beneficiato di quelle risorse.
Io non credo che il superamento della gestione commissariale possa condurre alle mirabolanti riduzioni delle imposte locali sbandierate dalla sindaca di Roma e dal Movimento 5 Stelle. Non si tratta neppure della soluzione strutturale ai problemi di governance della città, che richiedono quella “legge ordinaria” prevista in Costituzione per il riconoscimento della specialità di Roma in quanto capitale, e aggiungerei in quanto grande e complessa area metropolitana.
Sotto questo aspetto, è un peccato che tante risorse di discussione e di scontro politico si stiano spendendo soltanto per un primo passo utile alla rimozione di un’anomalia che ha prodotto danni alla città. Mi auguro però che l’esame del decreto “crescita” in Parlamento possa concludersi, anche grazie a una valutazione più informata e consapevole del merito della questione e al possibile miglioramento delle norme proposte, nel ripescaggio di ciò che il Consiglio dei Ministri ha stralciato.
E mi auguro che il Pd giochi un ruolo attivo e responsabile in questa direzione, evitando la subalternità alla Lega sul terreno anti-romano e di considerare il suo possibile apporto come cedimento ai 5 stelle. Se si vuole, è molto semplice per il Pd non essere né subalterno né cedevole: potrebbe (dovrebbe) incalzare governo e 5 stelle con una proposta di legge organica e di ampio respiro su Roma in attuazione della Costituzione.
Ci sono tre milioni e mezzo di persone nell’area romana che aspettano da troppi anni un progetto, una strategia, per la loro comunità. Il Pd non può, non deve, continuare nell’errore di non saperla esprimere.
**Professore di Economia industriale e di Economia applicata presso l’Università degli Studi di Roma Tre
*Haffinthon Post 26/04/2019