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P. Mele racconta la malattia, la militanza di credente, il lavoro

Prosegue la serie di incontri dialogati che Paolo Ricca realizza per Riforma e che ha visto finora i ritratti di Maria Paola Rimoldi, Annapaola Carbonatto, Matteo Ferrari, Fulvio Ferrario, Gabriella Caramore, Vito Tambone, Andrea Demartini, Marco Cassuto Morselli, Shangli Xu, Giorgio Tourn, Fra Lorenzo Ranieri e Alba Cordaro, Adelina Bartolomei: uomini e donne che hanno dei ruoli conosciuti all’interno delle chiese evangeliche in Italia o nell’ambito ecumenico, ma anche persone che, pur non avendo incarichi conosciuti ai più, portano con sé un’esperienza di fede significativa per tutti e tutte noi. Oggi è il turno di Pierluigi Mele, giornalista Rai Buona lettura!

Le radici di Pierluigi Mele sono liguri (è nato a La Spezia nel 1960) e pugliesi, con il padre, importante manager pubblico, e la madre casalinga dopo aver frequentato le Magistrali. Ha un fratello e una sorella. Dopo il diploma di ragioniere programmatore, ha studiato Scienze Politiche all’Università di Pisa, dove ha anche svolto attività politica creando, con altri studenti, una lista universitaria (“Azione democratica”). Ha militato nella Fuci e nelle Acli, e, come dirigente, nel Movimento giovanile della Democrazia cristiana. Negli anni ’90 ha studiato Filosofia alla Gregoriana di Roma. Come giornalista professionista specializzato in questioni sindacali è stato anche inviato in Jugoslavia e Israele. Da oltre 10 anni collabora stabilmente al programma RAInews24.

– La sua vita di uomo e di credente è stata segnata in modo permanente dalla malattia e quindi dalla sofferenza. Di quale malattia si tratta? Da quando ne soffre?

«Il mio corpo è stato colpito dalla malattia due volte. La prima volta dalla nascita, in quanto settimino (precoce) ho avuto un forte ittero neonatale e questo ha provocato una lesione extrapiramidale che mi ha reso un poco spastico. La seconda volta, a 43 anni, quando mi è stata diagnosticata la sclerosi multipla. Adesso sono su una sedia a rotelle da circa 15 anni».

– Lei si è ribellato a questo destino di sofferenza, oppure lo ha accettato? O è passato attraverso fasi alterne di accettazione e ribellione?

«La fase più acuta di “non accettazione” è stata forse durante le scuole medie. Dopo c’è stata una progressiva accettazione della mia situazione. Anche perché, nello sviluppo psicologico, nella mia interiorità, non mi sono mai pensato come un disabile. Questo non vuol dire negare il dato fisico, vuol dire non lasciarsi condizionare dalla disabilità. Posso dire che questo mi ha salvato. Mi sono buttato in mare aperto, accettando le sfide che via via capitavano. Anche ora, a 60 anni, che sono su una sedia a rotelle e non posso più camminare, mantengo lo stesso spirito. La sedia non limita la mia mente. Perciò il mio non è stato un “destino” di sofferenza. Anzi! Lo dico con molta umiltà».

– Nella Bibbia c’è Giobbe (come non pensare a lui?), ma sembra che ci siano due Giobbe: quello che accetta e quello che protesta. A quale dei due Giobbe lei si sente più vicino?

«Il grande tema di Giobbe è la sofferenza ingiusta dell’innocente. Un tema enorme. Tanti anni fa un bellissimo libro di Gustavo Gutierrez, teologo della liberazione, dal titolo Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’Innocente [ed. Queriniana, ndr] mi ha fatto capire che solo sapendo compromettersi con i poveri, quelli che sono i veri Giobbe della Terra, si potrà parlare loro di speranza. Dunque, chi è Giobbe? È un impasto di protesta e di accettazione, ma anche di profezia e contemplazione. Dio stesso riconosce che Giobbe ha detto le cose giuste su di lui. E nella storia di ogni credente dovrebbe esserci questo».

– Malgrado tante limitazioni e impedimenti, lei ha avuto e ha tuttora una vita professionale soddisfacente…

«Finché ho potuto camminare, limitazioni e impedimenti non ne ho avuti. Adesso che sono su una sedia a rotelle certamente ho qualche limitazione, ma per fortuna la tecnologia aiuta. La mia vita professionale è stata intensa: sono giornalista professionista. Ho fatto per alcuni anni anche l’inviato. Ora il mio è un giornalismo di approfondimento, che offre ai lettori una chiave di lettura sugli avvenimenti quotidiani. Ed è quello che cerco di offrire sul sito Internet di Rainews24».

– Lei, come ho già detto, è un credente cristiano. Può dirci come è nata e maturata in lei la fede?

«La fede è un dono di Dio che ho ricevuto in famiglia. Certamente la frequentazione della parrocchia, ovvero dell’Azione cattolica, ha contribuito a confermarla. Ma c’è stato anche un percorso di maturazione personale. Durante l’Università ho fatto parte della Fuci e delle Acli a livello nazionale, che hanno ampliato i miei orizzonti. Importanti per me sono poi stati i Padri Gesuiti della Civiltà Cattolica e dell’Università Gregoriana».

– Alla luce della sua conoscenza di Dio e della sua esperienza di vita, qual è, secondo lei, l’essenziale cristiano, cioè il nucleo centrale della religione cristiana?

«Il centro del cristianesimo è il Signore, come direbbe Romano Guardini. Gesù di Nazareth, il Cristo Liberatore (per citare il mio amico Leonardo Boff). La sua resurrezione è un messaggio di Liberazione integrale e un messaggio sovversivo nei confronti di ogni logica morte presente nella storia. Credere alla vita eterna vuol dire combattere gli inferni di quaggiù (Hans Küng), e quindi praticare una solidarietà piena e totale con gli ultimi della terra»

– Lei appartiene alla Chiesa cattolica romana. Per tradizione familiare o per scelta? O per entrambe queste ragioni? O per altre ragioni ancora?

«Per tradizione familiare e per convinzione. La mia Weltanschauung cattolica, chiamiamola così, non è chiusa, essa si arricchisce della polarità laica della cultura di sinistra».

– Lei è però anche impegnato nel movimento ecumenico. Come è nato in lei l’interesse per l’ecumenismo?

«L’ interesse per l’ ecumenismo nasce alle scuole superiori, quando mi hanno fatto studiare la Riforma protestante. Poi ho avuto un grande maestro di ecumenismo: il professor Beppe Ricciardi, grande precursore del cammino ecumenico cattolico. Ho lavorato per anni nella Commissione per l’ecumenismo della mia diocesi (La Spezia)». 

«Conosco bene la Chiesa valdese, anche perché ho vissuto diversi anni, come ospite, nel Convitto valdese di Roma. Lì ho conosciuto persone straordinarie, con alcuni di loro è nata una profonda amicizia. Il Protestantesimo è stato un soffio dello Spirito, l’Evangelo si liberava dalle incrostazioni di teologie anchilosate. Per questo sarebbe bello che la Chiesa valdese facesse sentire più forte la sua voce».

– Lei si è fatta un’idea di come potrebbe configurarsi, in un futuro più o meno lontano, l’unità dei cristiani?

«La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della Giustificazione tra cattolici e luterani è stata un passo importantissimo. L’unità futura dei cristiani io la immagino come una grande sinfonia, in cui ciascuno porta il suo suono. Lasciamo fare al genio del Signore, l’unico direttore d’orchestra a cui affidarsi». 

– Lei pensa che il papato sia uno strumento utile, o addirittura necessario, o invece un serio ostacolo per giungere all’unità cristiana?

«Come cattolico penso che la figura del Papa vada ripensata, non cancellata. Ripensata sempre più come carisma di comunione tra Chiese sorelle con pari dignità, quindi, in questa logica evangelica, può essere d’aiuto all’unità».

– Qual è, oggi, la sua preghiera a Dio?

«La mia preghiera oggi è per l’Europa e per l’Italia: spero che rinascano rinnovate dalla pandemia».

 

 

*da Riforma, 19/01/2021

 

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