dalla Newsletter n.86 del 17/04/2012
L’impianto della riforma del mercato del lavoro è da condividere perché combina interventi diretti a proteggere i lavoratori (soprattutto giovani), impiegati in lavori temporanei, con interventi diretti ad aumentare la flessibilità dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Non si verificheranno cambiamenti radicali nel funzionamento del mercato del lavoro, né ci si può aspettare una soluzione al problema della disoccupazione dei giovani. Però si va nella giusta direzione di garantire più equilibrio nelle tutele.
La cosiddetta “flessibilità in uscita” è uno degli aspetti che concorrono a determinare il grado di flessibilità dei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Non è l’unico aspetto. Ad esempio l’Ocse che da ormai venti anni costruisce, per ogni Paese, indicatori di rigidità del mercato del lavoro, indica almeno otto aspetti rilevanti che caratterizzano il grado di rigidità dei contratti a tempo indeterminato. Ad esempio un aspetto è la durata del periodo di prova, che in Italia è relativamente basso e che contribuisce a rendere rigido questo tipo di rapporto. Un altro aspetto è la consistenza dell’indennizzo che viene dato dalle imprese a coloro che vengono licenziati, a tutti i licenziati indipendentemente dal motivo, che sia giusto o meno. Nel nostro Paese questo indennizzo praticamente non esiste ( abbiamo il TFR , ma viene dato a tutti, non solo ai licenziati) e questo abbassa sensibilmente il nostro grado di rigidità. Altro aspetto è l’ammontare dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo e qui siamo nella media dei paesi europei. Per quanto riguarda il diritto alla reintegra dei lavoratori licenziati in modo illegittimo, noi siamo in testa alla classifica della rigidità. Nel complesso il grado di rigidità dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato nel nostro paese non è superiore a quello calcolato dall’Ocse per Francia, Spagna e Germania. E’ certamente superiore a quello calcolato per Paesi anglosassoni (USA e Gran Bretagna) e per la Danimarca ( paese della flexsecurity”), ma assume un valore che grosso modo è nella media di tutti i Paesi dell’Ocse.
La stessa Ocse sostiene da tempo che tutti i Paesi Europei ( soprattutto del Centro e del Sud dell’Europa) dovrebbero adottare sistemi più vicini a quello danese, al fine di attenuare i pericoli di un possibile dualismo nel mercato del lavoro, tra giovani poco protetti e lavoratori anziani con elevato grado di protezione. Infatti quando i gradi di protezione, dei contratti a tempo determinato da un lato, e i contratti a tempo indeterminato, dall’altro, sono troppo diversi tra loro, il rischio è che i giovani rimangano intrappolati in lavori temporanei, poco sicuri e a rischio di disoccupazione.
Il fatto che l’Ocse insista soprattutto nei confronti della Spagna e del nostro Paese per fare le riforme del lavoro, non si spiegherebbe sulla base degli indicatori di rigidità dei contratti a tempo indeterminato, visto che anche Germania e Francia, secondo la stessa Ocse, hanno legislazioni parimenti rigide. La insistenza dipende dal fatto che la disoccupazione giovanile è particolarmente elevata in Italia e in Spagna. E si ritiene che una maggiore flessibilità in uscita sarà sufficiente a ridurre questi elevati tassi di disoccupazione. Questo però non è scontato.
Per rimanere al tema di come un migliore equilibrio tra i due tipi di flessibilità possa essere raggiunto, il riferimento sembra essere il modello tedesco. Nel complesso, come si è detto il grado di flessibilità del contratto a tempo indeterminato non è in Germania particolarmente elevata ( stando sempre agli indicatori Ocse). Però il modello tedesco risponde a criteri di equità condivisibili: il caso della reintegra è contemplato, anche se la decisione non spetta al lavoratore ma al giudice. Sempre stando agli indicatori dell’Ocse, una riforma di questo tipo aumenta il grado di flessibilità dei nostri contratti a tempo indeterminato e, in questo modo, andiamo nella giusta direzione ( senza però fare cambiamenti radicali).
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NEWSLETTER NUOVI LAVORI 07/06/13 14:53
Un altro passo nella direzione giusta poteva essere fatto, con riguardo alla definizione dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo ( e nel caso non scatti la reintegra). Attualmente, nel disegno di legge presentato al parlamento, l’indennizzo va da un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24. Se si voleva favorire in qualche modo i passaggi dei giovani da contratti temporanei a contratti a tempo indeterminato, il sussidio minimo di 12 mensilità è forse troppo elevato.
In tutti gli studi economici di carattere teorico ed empirico che sono stati condotti in questa materia, si è insistito molto sul fatto che, per avvicinare i gradi di protezione dei due tipi di contratti, quelli stabili e quelli temporanei, occorre che il costo del licenziamento ( il “firing cost”) non aumenti eccessivamente nel passaggio da un contratto ad un altro. Quindi può andare bene prevedere una indennità che le imprese devono pagare allo scadere del termine, alla fine del contratto a tempo determinato, in caso di mancata trasformazione (come è ora previsto). Però occorre che per
un giovane appena assunto, o assunto da poco tempo, l’indennizzo per licenziamento illegittimo non sia troppo elevato, altrimenti scoraggia le imprese a fare assunzioni di questo tipo.
Ecco perché si consiglia di modulare l’indennizzo sulla base della anzianità aziendale. Il criterio della anzianità aziendale è previsto nel disegno di legge, e deve essere utilizzato da giudice nella scelta tra le 12 e le 24 mensilità. Ma questa previsione forse non basta. Occorrerebbe legare in modo più diretto l’indennizzo alla anzianità aziendale. E’ quello che si è fatto nella recente riforma spagnola: già da prima l’indennizzo era legato all’anzianità aziendale, ma prevedeva 45 giorni di retribuzione per ogni anno di anzianità. Con la riforma è stato ridotto a 33 giorni. Una cosa analoga si potrebbe fare anche nel nostro Paese ed essa andrebbe incontro ai suggerimenti che vengono spesso formulati nella letteratura economica che si interessa di questi argomenti. E’ chiaro che una proposta di questo tipo comporterebbe una riduzione del sussidio soprattutto per i giovani, ma tra tutti i possibili cambiamenti che verranno richiesti dalle imprese nel corso del dibattito parlamentare, questo mi sembrerebbe il più indicato per soddisfare una esigenza non solo delle imprese, ma anche di un migliore funzionamento del mercato del lavoro ( a favore dei giovani in attesa di un posto più sicuro).
Ciò cui occorre resistere è a cambiamenti che snaturino il disegno di legge a proposito della “cattiva flessibilità”. Le false partite Iva e le false collaborazioni sono l’essenza della precarietà nel nostro paese. Troppo a lungo si è confusa questa cattiva flessibilità con la “buona flessibilità” introdotta dalle riforme di Treu e Biagi.
La lotta al lavoro nero si fa con i contratti di apprendistato, a tempo determinato, di somministrazione. Non si può scendere ulteriormente prevedendo contratti che sono ai limiti del lavoro nero. La riforma in discussione è attestata proprio su questo fronte.
(*) Professore di Economia Politica all’Università Cattolica di Milano.