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Quanto può’ durare ”Uniti nella sicurezza, indipendenti sul resto”?

Le ultime tragiche vicende lampedusane hanno rilanciato, come mai prima, il tema delle politiche europee sull’immigrazione e l’asilo. Molti si chiedono quale sia il ruolo dell’UE rispetto ad un fenomeno così complesso e la cui gestione sembra ancorata ad un esclusivo approccio nazionale, nonostante la sua dimensione intrinsecamente transnazionale. Siamo di fronte ad un fenomeno che interessa più territori e quindi necessita di un approccio che favorisca una politica comune piuttosto che una dimensione statuale che promuove invece relazioni multilaterali e federative.

Sino alla metà degli anni ’90, infatti, sono stati direttamente gli Stati, senza mediazione alcuna delle Istituzioni comunitarie, a conformare le politiche dell’immigrazione in ambito europeo, ispirandole ad una rigorosa logica di difesa della sovranità. Fino al Trattato di Amsterdam, dunque, il nocciolo duro delle politiche migratorie europee si è fondato su una base giuridica “estranea” per definizione alle competenze comunitarie.

Con l’adozione del Trattato di Amsterdam, in vigore dal ’99, l’approccio cambia. Le materie relative a visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone, entrano a far parte del “Primo pilastro” dell’Unione Europea, determinando il passaggio dal metodo intergovernativo all’applicazione del diritto comunitario “sopranazionale”.

In seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, tuttavia, gli obiettivi inizialmente previsti dal Trattato di Amsterdam sono stati ridefiniti. La priorità della lotta al terrorismo ha imposto maggiore attenzione e conseguentemente maggiori investimenti nel contrasto dell’immigrazione clandestina e al controllo delle frontiere esterne e quindi tutti gli altri interventi vengono collocati in secondo piano.

Dunque, la collaborazione tra gli Stati dell’Unione continua ad essere sperimentata soprattutto sul fronte della sicurezza, come dimostrano la creazione dell’agenzia Frontexche ha il compito di coordinare la cooperazione operativa tra gli Stati membri in materia di gestione delle frontiere esterne con la relativa creazione di un fondo ad hoc o la previsione del fondo europeo per i rimpatri.

Anche con l’approvazione da parte del Parlamento Europeo nel 2008, della contestata “direttiva ritorno” che ha dotato i paesi europei di un ulteriore strumento a carattere repressivo attraverso il quale, in particolare, è possibile estendere la durata del trattenimento di cittadini stranieri senza documenti di soggiorno, si è voluto ribadire la sovranità dell’Europa rispetto alla sicurezza dei propri confini.

Così non è stato fatto per altre importanti questioni come la partecipazione politica degli immigrati o l’accesso alla cittadinanza che sono, invece, ancora disciplinate esclusivamente dalle legislazioni nazionali molto spesso caratterizzate da accentuate differenziazioni.È una situazione che si potrebbe tradurre con lo slogan “uniti nella sicurezza, indipendenti sul resto”. 

Eppure, nel 2008, l’UE adottava la comunicazione “Una politica d’immigrazione comune per l’Europa” dove si ribadiva con forza la necessità di un piano strategico volto ad una politica d’immigrazione comune basatasulla solidarietà tra gli Stati membri sancita dal trattato CE. “Solidarietà e responsabilità sono essenziali in un settore in cui le competenze sono condivise tra la Comunità europea e gli Stati membri”. I contesti storici, economici e demografici degli Stati membri sono diversi tra loro e ne determinano le politiche d’immigrazione, ma queste hanno evidentemente un impatto al di là delle frontiere nazionali e pertanto nessuno Stato membro può controllare o gestire efficacemente da solo tutti gli aspetti dell’immigrazione; di conseguenza, le decisioni che possono influenzare gli altri Stati membri devono essere coordinate.

A distanza di 5 anni, queste considerazioni appaiono quanto mai attuali se pensiamo alle vicende di casa nostra che tante polemiche hanno generato. Ormai da diversi anni, per evidenti ragioni geografiche, il nostro paese è diventato una delle principali porte di ingresso per i richiedenti protezione internazionale che giungono ogni anno nell’ordine di 30/40 mila persone. Di queste, tuttavia, poche intendono fermarsi sul nostro territorio. La stragrande maggioranza, infatti, intende muoversi in altri paesi dell’Unione Europea dove viene fatto valere, però, il principio contenuto nel regolamento Dublino per cui il richiedente protezione internazionale deve concludere la sua procedura di richiesta nel primo paese di ingresso e quindi in Italia. L’effetto di tutto ciò è un palleggiamento tra gli Stati di famiglie, donne e minori che chiedono solo di essere accolti dignitosamente e invece diventano, loro malgrado, oggetto di politiche mai risolte. 

Il caso dei siriani che stanno giungendo nel nostro paese in fuga dal loro paese in guerra è un altro triste esempio di deresponsabilizzazione dell’Europa rispetto ad una emergenza umanitaria sulla quale tanto si scrive e si parla, ma sulla quale nessuno vuole adottare alcun impegno. Le famiglie che sbarcano nel siracusano dopo aver pagato anche 3.000 dollari, evitano di farsi identificare in Italia per schivare le conseguenze di Dublino che le costringerebbe a rimanere nel nostro paese dove al massimo riuscirebbero ad ottenere un posto in accoglienza in strutture sovraffollate e fatiscenti (vedi il centro di Mineo in Sicilia o il centro Sant’Anna di Crotone). 

Cercano la via del nord Europa dove hanno parenti o amici. Ma il loro viaggio della speranza viene bloccato, ostacolato come nel caso dell’Austria che li blocca alla frontiera, impedendogli di proseguire verso la Germania o la Norvegia. Manca evidentemente una pianificazione condivisa laddove, invece, occorrerebbe mettere in campo una strategia comune, che miri a costituire un quadro più omogeneo ed immediato per l’azione futura degli Stati membri e dell’UE. C’è bisogno di una visone più ampia che riesca ad emanciparsi dall’idea che l’azione comune possa essere sperimentata positivamente solo su determinati temi legati alla dimensione lavorativa dell’immigrazione o alla sicurezza. I temi dell’accoglienza e dell’integrazione non possono essere esclusi dalle politiche comuni in materia di immigrazione e asilo.

Al di là del potenziale economico, infatti, l’immigrazione può arricchire le società europee anche in termini di diversità culturale. Il potenziale positivo dell’immigrazione può essere recepito a pieno soltanto attraverso una vera e completa integrazione reciproca. Ciò richiede una strategia che tenga conto non solo dei benefici per la società ospite, ma anche degli interessi degli immigrati. L’integrazione, dunque, costituisce la vera sfida per l’Europa. 

L’esigenza, dunque, di addivenire ad un approccio olistico, che ricomprenda tutti i numerosi aspetti del fenomeno migratorio, diventa un nodo cruciale. 

 

(*)  Caritas Italiana  Ufficio Immigrazione

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