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Razzismo che non muore mai

Nel 1954 la guerra è finita da un pezzo, il nazismo è stato sconfitto, il razzismo no: nel sud degli Stati Uniti d’America si vive ancora sotto un regime di segregazione razziale.

Dalla Virginia alla Louisiana, nel Kansas e in Florida, i cittadini di colore (etichetta che ha rimpiazzato “negro”) non possono viaggiare negli stessi scompartimenti ferroviari dei cittadini bianchi; frequentare le stesse scuole, ristoranti, cinema, sale d’attesa e toilette, sedersi sulle stesse panchine nei parchi e bere agli stessi distributori d’acqua.

Nonostante siano formalmente uguali dinanzi alla legge, i cittadini di colore prestano il servizio militare in reparti separati e comandati da ufficiali bianchi.

Inoltre in 16 stati d’America il matrimonio misto fra neri e bianchi viene considerato un reato fino al 1967.

Così prescrivono le leggi, le cosiddette Jim Crow Laws; e Jim Crow era il famoso “negro delle barzellette”, un personaggio che il comico americano Thomas Rice interpretava con il viso coperto di lucido da scarpe.

Tuttavia, e direi finalmente, dopo un susseguirsi  di rivolte civili, azioni di sensibilizzazione e pace, alcuni Stati americani incominciarono a cambiare idea.

Vergognosamente è però solo nel 2014 che tutte le leggi razziali vengono abolite in America.

Nel corso dello stesso anno, però, un genetista di nome Nicholas Wade dà l’annuncio sulla rivista “Time” della prossima pubblicazione del suo nuovo libro.

Il “capolavoro” afferma che l’analisi dei genomi di tutto il mondo dimostrerebbe che le razze hanno una base genetica, nonostante importanti organizzazioni nelle scienze sociali affermino il contrario.

In poche parole, il messaggio che Wade cerca di inculcare all’interno delle nostre menti sarebbe quello per il quale numerose considerazioni politiche o sociali spingono a combattere le discriminazioni legate alla razza. Tuttavia l’accurato approfondimento della scienza nel campionario genetico di Wade, ci riporterebbe con i piedi per terra; affermando dunque l’inevitabile costringimento nell’avere delle irrimediabili differenze, stampate dalla nascita nel nostro Dna e frutto della nostra appartenenza a razze diverse.

Questa sì che è una notiziona, verrebbe da dire; anzi, lo sarebbe se fosse vera, ma non lo è.

E’ nient’altro che una vera e propria falsità.

Il nostro caro Wade è solo uno fra i tanti caparbi scienziati che nel corso della storia hanno cercato di confonderci con le loro pseudo teorie.

Si è cercato di affermare l’esistenza delle razze, attraverso gruppi sanguigni, forma del cranio e differenze nel Dna; tuttavia le teorie si sono sempre rivelate erronee.

Esiste però un fattore che ancora non si è analizzato: se si dovesse arrivare a scoprire scientificamente, e senza inventare come hanno fatto Wade e tanti altri, che fra le differenze razziali ci siano effettivamente anche delle differenze nell’ambito cognitivo, nelle tendenze morali, nella creatività artistica o in qualunque altro campo, sarebbe sciocco far finta di nulla.

Un grande genetista, Theodosius Dobzhansky,  ha però affermato che i nostri uguali diritti non ci derivano dall’essere tutti uguali, ma dall’essere tutti umani; e non si può che dargli ragione.

A partire dall’ 800 incominciarono a svilupparsi teorie che si servivano del pensiero di  Darwin, stravolgendolo e forgiandolo a proprio favore.

Una di queste teorie, forse la più famosa, tentava, nell’impossibile impresa, di asserire che all’interno del cranio di ogni uomo bianco fossero presenti tre evidenti fossette.

Le aree circoscritte fra una fossetta e un’altra si pensava che fossero associate, in un uomo bianco, con la creatività.

La teoria affermava invece  che nel cranio di un uomo nero, questi spazi sarebbero stati associati alla schiavitù e al servilismo.

Inoltre, il tutto non era spiegato scientificamente, ma gli inventori diedero una spiegazione prendendo spunto da pensieri di Darwin e stravolgendoli completamente; deducendo ,dunque, che l’evoluzione delle aree del cranio negli individui di colore si sarebbe fermata.

Ovviamente nella scienza della “frenologia”, di questa si tratta, non c’è nulla di vero e il ciò viene spiegato dallo stesso Darwin, che scrive:” L’uomo è stato studiato più di ogni altro animale, e tuttavia c’è la più grande diversità di opinioni fra gli esperti  riguardo al fatto che possa essere classificato in una sola specie o razza, o due, o tre, o quattro, o cinque, o otto, o undici, o quindici, sedici, ventidue, sessanta, sessantasei.

Ogni naturalista che abbia avuto la sfortuna di intraprendere la descrizione di un gruppo di organismi altamente variabili, ha incontrato casi (parlo per esperienza) precisamente simili a quello dell’uomo; e, se dotato di cautela, finirà per riunire tutte le forme che sfumano l’una nell’altra in una stessa specie, perché dirà a se stesso che non ha alcun diritto di dare nomi a oggetti che egli stesso non può definire.”

Andando quindi ad analizzare ciò che dice il grande Darwin, si può facilmente dedurre che, nel pensiero dello scienziato, egli utilizza innanzitutto i termini specie e razza, con il valore medesimo, quindi come quello di sinonimi.

Li utilizza ,però, non come  facciamo oggi.

Il messaggio della vera voce della scienza non potrebbe essere più chiaro: finchè daremo nomi a entità che non riusciamo a definire, cioè finchè non ci sarà una definizione univoca di quante e quali siano le razze dell’uomo, la discussione sulla loro esistenza non avrà nulla di scientifico. “E io, che sono uno scienziato- ci vuole far capire Darwin- di queste cose non voglio parlare”.

E’ pur vero che alcuni fra gli scienziati che avevano affermato l’effettiva esistenza delle razze mediante la genetica, rimediarono poi, rinnegando totalmente quel concetto.

Infatti, l’idea di razza non solo ha perso, secondo il mio parere, ogni valore operativo, ma ormai non serve ad altro che a paralizzare la nostra visione di una realtà in continuo movimento.

Ogni individuo è unico e non può essere classificato secondo un ordine gerarchico.

Tutto il resto è pura ideologia.

Fino ad ora abbiamo parlato del razzismo come se fosse un concetto molto lontano da noi temporalmente.

Quasi  tutte le teorie, pensieri  elencati fino ad ora erano sì abbastanza lontani dai nostri tempi.

Sarebbe bello poter parlare della razza e soprattutto del razzismo al passato, pensare che dopo tanti anni sia un concetto archiviato nei polverosi scaffali della storia, ma purtroppo non è così…

Il lavoro degli scienziati non è bastato a espellere del tutto la razza dalle menti di non pochi individui, più o meno ignari delle recenti ricerche scientifiche.

Basta leggere o ascoltare quante siano le invettive sempre pronte a scagliarsi regolarmente contro rom, immigrati, ebrei o neri, e soprattutto senza avere idee fondate e ragionevoli per giustificare questi gesti.

La cosa più incredibile che purtroppo questa gente non comprende è che sono visti da parte del mondo, me compreso, come portatori di miscele di ignoranza, quali xenofobia e tante ancora.

Esistono esempi di razzismo esplicito nei confronti della gente di colore, espressi in pubblico.

Nella storia uno dei più evidenti è stata la dichiarazione di Hitler, che affermava: “I negri sono mezze scimmie”.

Proseguendo con altri esempi, e pur trattandosi di persone del tutto non comparabili tra loro, per importanza storica, addirittura nel 2014 Carlo Tavecchio, presidente della Figc ha espresso questo pensiero: “ Opti Pobà è venuto qua, e fino a ieri mangiava le banane, e ora gioca titolare nella Lazio.”

Fortunatamente le sue parole sono state sanzionate dall’ Uefa

Questi sono solo due fra i tanti esempi di pura ignoranza da parte dell’uomo.

E sono le persone come loro che andrebbero discriminate, non il contrario.

Nella frase del dittatore tedesco si percepisce quanta disumanità sia presente nel mondo.

E’ da considerare poi che lui non è solo una mela marcia e nera all’interno della nostra società, ma come lui ce ne sono tanti, ve lo assicuro.

Purtroppo non  basta convincere la gente sul fatto che la razza sia un concetto irrilevante e incoerente, affinchè il razzismo scompaia.

Difatti il rapporto tra razza e razzismo, non è lo stesso presente fra materia e materialismo o idea e idealismo.

In questi casi tendiamo a pensare i primi termini come radici e i secondi come derivati.

Nel caso del razzismo il rapporto si inverte: è il razzismo la causa scatenante, che spinge a teorizzare o più semplicemente a concepire la razza.

La razza non  è la causa del razzismo, ma il suo pretesto, il suo alibi.

A sostituire il paradigma biologico del pensiero razziale e razzista è subentrato un nuovo quadro di riferimento: quello culturale.

Spesso, infatti, si dice cultura, ma si pensa razza.

La nostra, poi, è un’epoca post-razziale (e non post razzista) caratterizzata però da nuove dinamiche di razzializzazione, basate non solo su concetti come i tratti somatici o il colore della pelle, ma anche legati ai profili degli usi e dei costumi.

La razza, in quest’epoca, non è altro che un velo che media le percezioni degli altri, rendendo possibile un “secondo sguardo”.

Chiudendo quindi questa breve parentesi sul razzismo visto da una prospettiva di tipo culturale, ciò che penso è che quella purezza, tanto cara ai sostenitori della razza, ritorna ad essere evocata, dai cavalieri dell’identità e della difesa a oltranza delle proprie culture.

E’ dunque questa, sempre secondo il mio parere, la nuova frontiera del razzismo.

E’ questo che oggi come oggi dobbiamo essere sempre pronti a combattere, perché come ci ammonisce il grande Primo Levi:” E’ avvenuto, quindi può avvenire di nuovo.”

Paradossalmente in presenza di atti o gesti verbali che definiremmo razzisti, ovvero discriminanti sulla base di una presunta superiorità o distinzione (razziale) di un gruppo rispetto ad altri, sentiremo nelle nostre orecchie frasi come: “Io non sono razzista” oppure “questo non è razzismo, sono solo realista”.

Frasi come queste è giusto che vengano analizzate.

Quindi aprirei un paragrafo sul linguaggio definito razzista o meno.

Uno degli esempi più comuni di gente che verbalmente si dimostra razzista, è quello del “parlante”,  che non ammette ciò che invece desidererebbe pensare o fare.

La parola protagonista di questa parentesi è inevitabilmente la parola “negro”.

In termini di lessico, sull’uso di negro, nero o di colore, si è discusso non poco, a partire da tre secoli fa.

Perché non vi è dubbio che l’argomento e le connesse scelte linguistiche presentino alcune incertezze e insidie sia sul piano lessicale, sia su quello dell’essere accettati socialmente.

Dunque, fino agli anni Settanta, negro, nero, e di colore erano stati utilizzati come sinonimi e con caratteristiche di significato simili.

Negro, fra i tre, era certamente quello storicamente usato e soprattutto quello più pregnante.

Esso identificava la presunta razza o addirittura il popolo.

Negli anni cinquanta era possibile leggere sul vocabolario Zanichelli che i negri erano popoli d’Africa, distinti dal colore della pelle, dal collo, dai piedi e da evidenti tratti somatici differenti rispetto a quelli di un uomo bianco.

Il termine, difatti, anche espresso in pubblico, era di uso comune  e veniva utilizzato con frequenza, senza provocare scandalo o scalpore, o senza essere ritenuto necessariamente offensivo.

Solo agli inizi degli anni Sessanta, in seguito alle lotte dei neri americani, i traduttori avrebbero cominciato a preferire l’uso di nero, rispetto a quello di negro.

Cominciò poi a diffondersi anche il termine di colore.

Ciò non inibì, comunque, la circolazione di negro, che anzi negli anni Ottanta poteva essere usato, con pretesa neutralità, dai più importanti media, in relazione al fenomeno dell’immigrazione.

Qualcosa cambiò negli anni Novanta, quando fu importato il dibattito sul “politicamente corretto” dai paesi anglosassoni, con esiti sia nella scelta fra negro, nero o di colore, sia nelle percezioni del rapporto fra lingua e società sia  tra usi linguistici e sensibilità.

Tuttavia negro resta indubbiamente un termine problematico: occorre tenerne conto.

Quanto al discorso inerente a nero e di colore, inizialmente il secondo termine venne considerato il più giusto da utilizzare, il più neutro.

In seguito, però, la medesima parola, è stata percepita come se volesse mettere l’accento proprio sulla caratteristica del colore della pelle che si vorrebbe dunque non evidenziare.

Detto questo, anche il termine nero, non è  privo di significati ambigui.

Secondo il mio parere, però, tutti questi termini, utilizzati solo con voce neutra e non dispregiativa e discriminante, possono essere recepiti da chi ascolta come sinonimi, perché ricordando tutti i valori dell’uguaglianza, sarebbe stupido prendersela.

Tuttavia, valutando le varie sensibilità d’animo, sarebbe meglio utilizzare gli ultimi termini, ritenuti e percepiti più corretti rispetto al primo.

Fino ad ora si è parlato del razzismo in modo abbastanza approfondito, ma , partendo dalle basi, cos’è il razzismo?

Bene, a questa incognita non è possibile trovare una risposta ben precisa, ma possiamo definire ciò come un’ipotesi erronea relativa a un gruppo di individui che può indurre a commettere azioni offensive e talvolta violente.

Oppure si tratta di un sentimento cupo che mescola odio e paura.

O è un ideologia che intende stabilire chi è propriamente uomo e chi, pur sembrando tale, appartiene a una sottospecie antropologica, che ostruisce l’accesso ai diritti e perfino alla pietà.

Non esistono parole e definizioni che possano descrivere uno degli atti più abietti di questo mondo.

Certo è sicuramente un qualcosa di sbagliato, sciocco, ignorante e soprattutto disumano.

E’ strano parlare dell’uomo come se fosse una bestia, ma ricordiamoci che anche noi siamo animali, e direi a volte anche molto peggio.

Vorrei concludere questo breve saggio con un titolo di un film che è riuscito a rappresentare questa tematica e a riportarla sul grande schermo: Django Unchained.

Non bisognerebbe mai far vincere il pregiudizio, perché in fondo, quando quest’ultimo trionfa, restiamo tutti un po’ più poveri.

 (*) Studente di 3° media, Istituto “D.R.Chiodi” di Roma, a commento del libro “Contro il razzismo” a cura di Marco Aime, Einaudi Editore

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