- Il “Jobs act” è un passo nella giusta direzione ma non va lontano se non viene accompagnato, in parallelo, da un ulteriore passo in avanti attivato dalla ripresa degli investimenti pubblici e privati. Il Paese ha bisogno di recuperare i 100 miliardi sfumati dal 2008 al 2013 (centro di ricerca Einaudi). Qualcosa si è mosso a livello europeo con il recente accordo (dicembre 2014) fra capi di Stato e di governo sul piano “Junker” che prevede la creazione di un Fondo Europeo di investimenti strategici (21 miliardi di capitali pubblici per riattivare 316 miliardi di capitali privati) e con la recente iniziativa della Banca Centrale Europea di acquistare titoli pubblici dell’eurozona.
Tuttavia è di rigore una certa prudenza perché non appaiono ancora del tutto appianati i contrasti fra i paesi del rigore e quelli della crescita che pesano sulla individuazione delle risorse e dei criteri applicativi, soprattutto per un paese come l’Italia, fortemente indebitato con una moneta su cui esercita nessun controllo. Rimane, in ogni caso, unanime il parere che questi primi passi, a livello europeo, poco tolgono al vincolante impegno del nostro Paese di creare le convenienze idonee per l’attivazione degli investimenti interni ed esterni, oggi scoraggiati dall’attuale clima di incertezza e di precarietà sul futuro. - Dal lato degli investimenti pubblici sono noti i limiti della nostra finanza pubblica. Ciò non deve però far trascurare il ruolo dello Stato nell’organizzazione di una politica di sviluppo. I pochi ma qualificati investimenti pubblici possono essere in grado di produrre un effetto leva degli investimenti privati, in presenza di progetti sostenuti dalla chiara esplicitazione degli obiettivi e da trasparenti condizioni “normative” di realizzazione. Dal punto di vista del metodo, vale il richiamo al modello Europeo del Fondo strategico, ma non è meno utile ricordare alcune esperienze positive realizzate in Italia nel corso della crisi degli anni trenta e nella successiva fase della ricostruzione post-bellica, caratterizzate dalla promozione congiunta di investimenti pubblici e privati nei grandi progetti infrastrutturali (autostrada del Sud realizzata in 8 anni 1956-1964).
- Ad ogni modo rimane la conferma che la ripresa degli investimenti deve provenire soprattutto dal settore privato. Lì esiste il grosso delle risorse. Per quanto la crisi abbia comportato un arretramento dei redditi con una perdita di 3.700 euro per abitante (Rapporto Confindustria 2014), i frati (cioè i cittadini) risultano più ricchi del convento (lo Stato).
Le analisi della Banca d’Italia valutano in 8 mila miliardi la ricchezza privata netta delle famiglie italiane di cui 3900 miliardi investiti in prodotti finanziari (marzo 2014). Peraltro, ricchezza in crescita, perché nonostante la crisi, l’incertezza sul futuro induce gli italiani a risparmiare, come è evidenziato dalla crescita dei depositi bancari, delle polizze vita, dei flussi del risparmio gestito. Si tratta di ricchezza concentrata soprattutto nelle classi di popolazione anziana con un trend crescente a loro vantaggio (+10) e decrescente per gli under 35 anni (-15%), distribuzione che scoraggia la propensione ad investimenti a maggiore rischio.
I dati Eurostat consentono anche di valutare l’andamento del patrimonio finanziario delle imprese (escluso il settore bancario). L’erosione è stata molto forte: dai 1700 miliardi del 2008 ai 1541 dati 2013. Anni di decrescita che hanno lasciato il segno. Rimane però aperto un quesito: quanta di questa ricchezza persa sia dovuta ai fallimenti, agli investimenti finiti in nulla, all’erosione dei patrimoni per le perdite e quanto sia dovuto ad un depauperamento patrimoniale delle aziende avvenuto con un trasferimento di risorse sui conti personali o in rendite finanziarie in attesa dei tempi migliori. Quesito che viene legittimato dal fatto che nessun paese europeo evidenzia una tale sproporzione tra ricchezza finanziaria delle famiglie e ricchezza delle imprese, la prima quasi doppia della seconda. Nessuna sorpresa se a questa distorsione corrisponde la caduta di competitività e produttività (total factor productivity), del nostro sistema produttivo nei confronti dei nostri competitori esteri. - Dall’analisi fatta si possono trarre due conclusioni.
La prima è che in presenza degli attuali vincoli europei, la riattivazione della crescita affidata alla ripresa degli investimenti interni è un obiettivo insostenibile.
Lo Stato, indebitato con una valuta esterna che non controlla, rimane esposto agli umori dei mercati finanziari e quindi non in condizioni di governabilità piena dei processi economici in un’ottica di medio periodo. Anche perché il percorso indicato a livello europeo (fiscal compact), per il rientro del debito pubblico al 60% del Pil, se non corretto, imporrebbe un avanzo primario (al netto degli interessi) triplo rispetto all’attuale (dall’1,5 al 4,5%) quando nel corso degli anni ’90, in presenza di un ciclo economico più favorevole e di una forte pressione fiscale per entrare in Europa, la media fu del 2,5%. Senza qualche forma di mutualizzazione del debito pubblico nella parte eccedente il 60%, non solo l’Italia ma l’intera Europa rimarrà sotto lo scacco di una pressione fiscale ostile allo sviluppo dei consumi e degli investimenti (qualche apertura in tal senso dalle recenti decisioni della BCE).
La seconda conclusione aggiunge all’impegno nei confronti dell’Europa per allargare le maglie della flessibilità dei trattati, quello interno, espresso dalla capacità della comunità nazionale di ritrovarsi in alcuni obiettivi intorno ai quali mobilitare i vari attori dello sviluppo.
Parliamo delle aziende e dei lavoratori occupati, il luogo dove si creano le condizioni per investire in nuove tecnologie, in nuovi prodotti. Quali sono gli interessi condivisibili: che le aziende crescano in dimensione per adattarsi alla nuova competitività; che le nuove tecnologie digitali flessibili siano occasione di un recupero produttivistico, realizzato con forme partecipative del lavoro; che nuove idee ed iniziative di business allarghino la base produttiva del Paese; che l’impegno speso per abbassare i costi interni non venga annullato dall’aumento dei costi esterni; che appropriate politiche di redistribuzione del lavoro si facciano carico di riequilibrare gli effetti “labor saving” della maggiore produttività.
Obiettivi dalla cui realizzazione capitale e lavoro possono trarre vantaggi reciproci, creando nel contempo le convenienze economiche perché i flussi di investimento delle famiglie ritornino a sostenere lo sviluppo produttivo.
A tal fine potrebbe essere d’aiuto il rafforzamento dei soggetti di intermediazione finanziaria (fondi di investimento, emissioni di mini bond) per sanare lo squilibrio denunciato tra ricchezza finanziaria delle famiglie e delle imprese, con un’attenzione speciale a quelle imprese già consolidate sul mercato estero (20.000 circa) che presentano prospettive di rendimento elevato.
La riattivazione degli investimenti in un paese che presenta una grande varietà territoriale nella struttura economica e nella specializzazione settoriale richiede sia una migliore conoscenza della nuova geografia economica sia un modello di regolazione più attento ai valori del policentrismo decisionale e della varietà ambientale.
Inprenditori e sindacalisti diano una spinta decisiva al rapporto Draghi
Nel mio ultimo dibattito pubblico prima dell’estate – un bel Convegno sul futuro del lavoro in