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Reddito minimo garantito o reddito universale di base?*

Il Papa ha lanciato un sasso e smosso le acque, sta alle forze sociali, ai laici, ai movimenti e alla politica trovare una soluzione, specie in questo periodo, in occasione della Pasqua, il Papa ha inviato un messaggio, noto come “Lettera ai movimenti popolari” con cui da tempo il pontefice ha intessuto un dialogo, parlando apertamente di una «retribuzione universale» di base: «Forse – dice Francesco – è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti».

In questi giorni, grazie ad un articolo di Civiltà Cattolica a firma del gesuita Gaël Giraud (Economista, direttore di ricerche al CNRS di Parigi), il tema è stato rilanciato con un lungo e ragionato intervento di cui daremo subito ragione, e a cui iniziano ad arrivare le prime risposte, come quella del 4 giugno del Foglio. Ma quali sono i termini della questione?

Cosa propone il Papa?

Torniamo all’affermazione del pontefice: «retribuzione universale di base», a cosa si riferisce? Il gesuita Giraud ci guida tra i differenti orientamenti degli economisti con poche righe, cercando di farci capire che il Papa innanzitutto non sta indicando una soluzione precisa, potremmo dire “cotta e mangiata”. Non siamo di fronte ad una asserzione per cui il magistero ecclesiale propende per una soluzione o per l’altra, siamo nel campo della discussione, come per tutte le cose del mondo, la Chiesa, con la sua dottrina sociale, propone innanzitutto un orizzonte di senso: come si fa a dare dignità a chi oggi non può lavorare a causa della crisi (acuita dal Covid 19)? A chi non ha diritti? A chi è tenuto ai margini della società in cui abita per nascita o per necessità?

Declassamento, emarginazione e mancanza di lavoro marginalizzano le persone al punto di cancellarle, escludendole da tutte le forme di partecipazione; il lavoratore subordinato, il precario, l’escluso, il disoccupato, la vedova, l’orfano, il rifugiato, il senzatetto, il paziente diventano così sempre meno udibili, sempre meno visibili.

Queste persone nell’ambito dell’economia di mercato, nell’ambito della società permeata dalla “cultura dello scarto” che continuamente il Papa evoca e stigmatizza, perché contraria al Vangelo e a quella “opzione preferenziale per i poveri” che è il fulcro della vocazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, sono invisibili. Sono la periferia della società. Ecco allora che la partecipazione al benessere, vuol dire riappropriarsi di una visibilità e di un ruolo nella società. Curare la dignità delle persone, dei lavoratori, vuol dire ri-collocarle al centro: non più esclusi, non più assoggettati dal bisogno. Ma allora di quali opzioni parliamo? Si tratta – per usare le parole di Giraud – «di un salario minimo riservato a coloro che hanno un lavoro, o di un reddito universale destinato a tutti, senza condizioni?»

[…] Ad esempio, agli occhi di un sindacalista francese come Joseph Thouvenel, segretario della Confederazione francese dei lavoratori cristiani, le osservazioni di Francesco non possono essere interpretate come un alibi per coloro che «oziano», ma possono essere solo un’allusione alla teoria del «giusto salario», formalizzata da Tommaso d’Aquino e poi ripresa da Leone XIII nell’enciclica Rerum novarum (1891). In questo caso, la proposta del Papa equivarrebbe a stabilire un salario minimo garantito. In effetti, l’attuale globalizzazione del «mercato» del lavoro implica logicamente che anche le regole che consentono di evitare tutte le possibili distorsioni siano globali; altrimenti imporre un salario minimo in un certo Paese o in un altro fornirà solo un incentivo alle aziende per delocalizzare le proprie attività altrove.

Diversi economisti, tra cui Thomas Palley, propongono di imporre un salario minimo, pari al 50% del salario mediano di tutti i Paesi del Pianeta. In Italia, ciò equivarrebbe a fissare uno stipendio mensile minimo di circa 1.860 euro (anziché i 500 attuali): un quarto della forza lavoro italiana attualmente riceve uno stipendio inferiore a tale importo, e questa quota rischia di aumentare nei prossimi anni.

Ma l’elenco dei beneficiari della «retribuzione universale» di cui parla il pontefice non è ristretto alla sola categoria dei lavoratori

«venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali […], lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento». Le varie traduzioni della Lettera pontificia fanno pensare che il termine «salario» non possa essere interpretato rigorosamente: salaire, salarios, salário e wage, ma anche Grundeinkommen e retribuzione. Coloro che devono uscire dall’invisibilità sono anche i «malati e [gli] anziani. Non compaiono mai nei mass media, al pari dei contadini e dei piccoli agricoltori che continuano a coltivare la terra per produrre cibo senza distruggere la natura, senza accaparrarsene i frutti o speculare sui bisogni vitali della gente» (Lettera ai movimenti popolari).

A chi si rivolge, dunque, la proposta del Papa?

A tutti i «lavoratori». Una casalinga, per esempio, i cui servizi, dal momento che non sono sul mercato, non vengono mai presi in considerazione nel calcolo del Pil, fornisce una prestazione «lavorativa»? Chi sono questi «lavoratori», se non vengono riconosciuti da uno status che li qualifichi come tali? È proprio in questa loro invisibilità che sta il problema che Francesco vuole risolvere (Civiltà Cattolica).

Ma perché il Papa mantiene una ambiguità e non opta per l’una o per l’altra? Perché innanzitutto vuole che a decidere e ad essere inseriti nel discorso e nella soluzione chi oggi non è al centro del dibattito, ma né solo oggetto. Oggi chi decide o chi discute è parte di quel “centro” della società, non di chi è ai margini. Il Papa vuole, spera, prega e spinge perché le decisioni sui poveri siano prese di concerto coi poveri. È un po’ la cifra del pontificato bergogliano: il Papa costruisce la cornice, i laici e le chiese locali devono decidere cosa metterci dentro. E’ un approccio che parla di responsabilità e di maturità, ma dice anche che non ci sono soggetti di serie a e di serie b per parlare di un problema di tutti e che il Papa non è quello che arriva con le soluzioni. Il cammino è sempre il discernimento, ed ecco perché questo tema è anche un tema ecclesiale.

…che direzione prendere dunque?

Sul Foglio, giornale di impostazione liberale, Flavio Felice (professore di storia delle dottrine politiche all’Università del Molise) firma un contributo che getta subito “acqua sul fuoco” e cerca di ricostruire un filo rosso con la tradizione della Chiesa in ambito di dottrina sociale.

E’ qui che entra in gioco la profonda critica di Giovanni Paolo II a una certa interpretazione dell’intervento pubblico: welfare state, per i suoi eccessi che lo hanno condotto a essere identificato con lo “Stato assistenziale”; scrive Giovanni Paolo II: “Disfunzioni e difetti della Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà”. Dunque, la proposta di Papa Francesco andrebbe colta nel contesto teorico e pastorale nel quale è possibile comprendere la dottrina sociale della Chiesa, da Leone XIII a Papa Francesco, applicando quell’ermeneutica della continuità, così ben spiegata da Papa Benedetto XVI.

e ancora

La visione della dottrina sociale della Chiesa ci insegna che allo Stato spetta il compito di vigilare affinché chi oggi versa nel bisogno venga aiutato in modo che, in forza dell’aiuto ricevuto, domani possa essere a sua volta attivo protagonista e incluso nei processi democratici e di sviluppo. In ogni caso, come ammonisce il cattolico e liberale Einaudi, si dovrà riflettere sul fatto che una qualsiasi proposta “dipenderà sempre da molte circostanze, dalla ricchezza del paese, dal livello di vita, dalla distribuzione della proprietà, circostanze che dovrebbero essere esaminate caso per caso prima di giungere ad una conclusione che abbia il marchio della attuabilità e non delle semplici fantasie che sono per lo più socialmente pericolose”. E sempre Einaudi a precisare che “anche chi ammette il minimo dei punti di partenza, sa che bisogna cercare di stare lontani dall’estremo pericolosissimo dell’incoraggiamento all’ozio”.

Il tema del lavoro come finalità dell’uomo è chiaramente centrale nella riflessione di Felice e certamente richiama la posizione sopra riportata del sindacalista cristiano Joseph Thouvenel sempre sul tema degli “oziosi”, una categoria dello spirito prima ancora che sociologico-economica. Tuttavia sembra anche che la principale preoccupazione sia il mantenimento dello status quo in termini di distribuzione della ricchezza e poche righe sopra il professor Felice stigmatizza l’idea di un «“prelievo globale” che sa tanto di “esproprio globale”». Eppure il livello di accumulo della ricchezza è – almeno in parte – parte del problema dell’agostiniano “giusto salario”. Il rapporto Oxfamdel 2018 parla chiaro, e le cose non sono cambiate, anzi.

L’82% dell’incremento di ricchezza globale registrato l’anno scorso è finito nelle casseforti dell’1% più ricca della popolazione, mentre la metà più povera del mondo (3,7 miliardi di persone) ha avuto lo 0%.

In Italia a metà 2017, il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta.

Nel periodo 2006-2016, il reddito nazionale disponibile lordo del 10% più povero degli italiani è diminuito del 23,1%.

Nel dopoguerra, in Occidente, tra il 70 e l’80% del reddito percepito dalle persone veniva dal lavoro. Oggi è sceso sotto il 60%: il resto viene dalla rendita e dalla continua perdita di salario da parte dei lavoratori a vantaggio di una ristrettaélite di persone che si arricchiscono della differenza tra un salario dignitoso e un contratto stabile e la precarizzazione delle vite, non solo dei più giovani ma di ampie fasce della popolazione. Dentro le strutture economiche ci sono sicuramente strutture di peccato, ci sono cioè strutture di lavoro che non sono pensate per l’uomo e che non ne aiutano il pieno e corretto sviluppo.

Probabilmente – ma è una mera ipotesi – la via è un mix tra entrambi gli strumenti: da un lato garantire che nessuno resti mai senza reddito, per nessun motivo, che esso sia sufficiente a non costringerlo ad accettare lavori sottopagati, senza scopo o non dignitosi, dall’altro lato spingere perché il salario minimo legale sia alto e capace di non provocare una sorta di “competizione” tra percettori di reddito e precari o persone deboli ma interne al cosiddetto “mercato del lavoro”. Togliere le persone dalla precarietà, aumentare – e garantire la continuità del reddito – permetteranno a moltissimi di uscire dalla propria periferia esistenziale, che può essere anche il sentirsi costretti ad un lavoro senza prospettive o senza sbocchi, e garantirsi un posto nella società senza più essere invisibili, partecipando pienamente alla vita collettiva deve essere un obiettivo di tutti. Garantirà una società più forte e perfino una economia più dinamica, con magari qualche ricco in meno, ma certamente con molti meno poveri.

*pubblicato su Aleteia il 05/06/2020

**giornalista, coeditor di Aleteia Italia

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