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Regole da rispettare per un buon federalismo differenziato*

Due posizioni radicali (e sbagliate). Il federalismo differenziato di cui si parla e straparla animatamente in questi giorni minaccia di essere, com’è stato scritto in una serie di interventi su lavoce.info, una di quelle riforme istituzionali fatte male o addirittura, alla fine, non fatte proprio. C’è il timore che il paese si divida in due posizioni radicali. Secondo la prima, con l’autonomia rafforzata, le regioni del Nord cominceranno a liberarsi dal giogo nazionale, assumendo risorse illimitate e comunque azzerando i residui fiscali che le vede contributrici nette alla finanza pubblica nazionale. In base alla seconda, il federalismo differenziato prosciugherà le risorse destinate al Sud, negando i principi di solidarietà territoriale fino a ora consolidati.

Entrambe le posizioni sono fuorvianti e sostanzialmente errate. La prima perché non c’è alcun giogo da cui liberarsi e non c’è alcun residuo fiscale da recuperare: se il reddito pro-capite è più elevato in certi territori è giusto che questi siano contributori netti. La seconda perché il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie di tutela del caso e poi perché, in realtà, l’uguaglianza verso il basso non la vogliono nemmeno i territori “poveri”.

Cosa dice la Costituzione

A nostro parere, l’autonomia rafforzata ad alcune regioni con le carte in regola (quindi non necessariamente a tutte), se disciplinata attenendosi scrupolosamente al dettato costituzionale, potrebbe costituire l’occasione per un rilancio del polveroso istituto regionale, con vantaggi in termini di produttività estesi a tutto il paese, come la teoria economica della convergenza e delle esternalità territoriali in qualche modo suggerisce.

Ma, finché siamo in tempo, occorre intervenire su alcuni punti contenuti nelle intese con le regioni Lombardia e Veneto (l’intesa con l’Emilia è meno dirompente), prima dell’avvio dell’ancora lunga procedura legislativa e parlamentare. In particolare, occorrerà applicare correttamente l’articolo 116 del Titolo V, al comma 3, secondo cui le forme e le condizioni particolari di autonomia, per quanto attiene al finanziamento, devono essere coerenti con l’articolo 119. Ciò, significa che i criteri di finanziamento debbono attenersi alle indicazioni della legge delega 42/2009 di applicazione e, a cascata, alle disposizioni della prima parte (inattuata) del successivo decreto legislativo 68/2011.

Al riguardo, fino a che tutta questa costruzione non sarà abolita e sostituita da qualcosa d’altro, si prevedono due categorie di spese: la prima (circa il 70 per cento del totale) rivolta al finanziamento delle funzioni per il soddisfacimento di diritti sociali e civili, elencate all’articolo 117, 2° comma, lettera m), tra cui sanità, assistenza, in parte istruzione e trasporti, e la seconda al finanziamento delle altre funzioni.

Per le prime è espressamente prevista la definizione, da parte dello stato, dei livelli essenziali delle prestazioni (per cui spesso si denotano come “spese Lep”). Al finanziamento di queste spese, una volta standardizzate (evito di aprire il vaso di Pandora del calcolo dei fabbisogni standard e mi adeguo alle utili semplificazioni di Massimo Bordignon), sono destinati specifici tributi, con un gettito valutato ad aliquota e basi imponibili uniformi. Si tratta di tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito localmente, dell’Irap, dell’addizionale regionale Irpef e della compartecipazione Iva. Per integrare il gettito di questi tributi è previsto un trasferimento verticale a carattere perequativo. Al finanziamento delle altre spese (“spese non Lep”) provvede un’adeguata autonomia tributaria che si esercita entro limiti fissati dalla legislazione statale, con la modifica delle aliquote base dei precedenti tributi, insieme al trasferimento perequativo orizzontale sulla capacità fiscale. L’autonomia tributaria è destinata anche a finanziare livelli di spesa extra-standard delle spese Lep.

Se questa è la struttura base di finanziamento delle regioni a statuto ordinario a cui si deve attenere l’autonomia rafforzata, ne derivano le seguenti conseguenze. Solo per le funzioni devolute che generano nuove spese Lep si applica una specifica maggiorazione, rispetto all’aliquota base, della compartecipazione Iva, quindi niente compartecipazione all’Irpef, già gravata dall’addizionale. E se la spesa standardizzata delle competenze devolute è superiore a quella effettiva, la differenza è incamerata dalla regione, come “premio” della sua conclamata maggior efficienza. Viceversa, se la spesa standard è inferiore, la differenza perde la garanzia dello stato ed è coperta dall’autonomia tributaria, così come avviene per le funzioni devolute che comportano spesa non Lep.

Tutta l’operazione deve essere a bilancio zero per la pubblica amministrazione e a parità di pressione fiscale complessiva. Inoltre, per garantire i territori deboli, deve rimanere inalterata la struttura dei trasferimenti perequativi, quelli verticali per le funzioni sui diritti sociali, e quelli orizzontali, sulla capacità fiscale, per le altre funzioni.

Uno schema come questo probabilmente deluderà i “secessionisti nostalgici”, così come gli “egualitaristi puri”, ma ci pare l’unico che si fondi su una base costituzionalmente coerente e renda, allo stesso tempo, possibile il federalismo differenziato e le sue potenzialità.

*La voce, 19/02/2019

**Professore emerito dell’Università degli studi di Firenze. Tiene il corso di Politica economica alla Scuola di economia e management di Firenze. E’ stato presidente della Commissione tecnica per la spesa pubblica del Tesoro e presidente della Società italiana di economia pubblica. Attualmente è membro del Comitato scientifico dell’Ufficio Parlamentare del Bilancio.

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