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Riavvicinare giovani e lavoro con la fine della pandemia

Tra le diverse e forti turbolenze che la crisi pandemica ha portato nel mercato del lavoro italiano, quella relativa al rapporto tra giovani e lavoro rischia di diventare quella più critica, anche per le debolezze croniche dell’occupazione giovanile nel nostro Paese.

Già in tempi di moderata crescita, il mercato del lavoro italiano ha sempre avuto nel tasso di occupazione giovanile uno dei principali punti deboli, non solo relativamente ai bassi tassi di occupazione, al folto numero di NEET, ma anche nella qualità dell’occupazione, con alti tassi di precarietà e schiacciata spesso verso lavori poco qualificati.

Tutti abbiamo visto drasticamente peggiorare questi dati nel corso dell’ultimo anno, proprio perché più che in altri paesi europei i giovani hanno molti rapporti di lavoro a termine, quelli che nessun blocco dei licenziamenti ha potuto proteggere. Credo personalmente che con l’uscita dalla pandemia non sarà facile assistere ad un naturale riequilibrio del mercato del lavoro. Non dimentichiamoci che viviamo un tempo nel quale proprio i giovani studenti delle scuole secondarie e terziarie stanno soffrendo molto la DAD e le chiusure delle attività scolastiche in presenza. Ciò porterà, in assenza di contromisure, ad ulteriori forti tassi di dispersione scolastica, uno dei fattori principali che rende l’occupazione giovanile debole e incerta in Italia. 

D’altra parte tra i fenomeni più atipici del mercato del lavoro italiano degli ultimi anni registriamo la maggiore appetibilità degli over 50 rispetto agli under 30. Tutti i dati suddivisi per classi di età ci dicono che le imprese hanno maturato una tendenza a preferire lavoratori esperti piuttosto che giovani innovativi. Anche in questo caso un fenomeno tutto italiano che conferma come scuola e impresa non sono in condizione di valorizzare e strutturare giovani interessanti per il lavoro che cambia.

 

Che fare ora?

E’ urgente predisporre un programma di interventi strutturato che vada ad affrontare storture e debolezze ed intervenga in modo massiccio sui tassi di occupazione. Non esistono a mio parere ricette magiche o uniche. Serve dosare una serie di interventi coordinati tra loro e capaci di risolvere antichi mali del rapporto tra scuola e lavoro e legati ai percorsi di transizione occupazionale in Italia.

Le risorse del piano Next Generation EU sono una grande occasione ma guai a noi a pensare che bastano questi finanziamenti (ricordiamocelo, sono da restituire in buona parte) a risolvere la questione. Le politiche per il lavoro hanno bisogno di investimenti. Ma non sono le risorse a fare la differenza e a curare i difetti congeniti del nostro mercato del lavoro. 

Sono le riforme in tema di lavoro che potranno costituire una nuova base. Occorre prima maturare e condividere con le parti sociali programmi forti e attraenti e quindi pensare a come finanziarli.

 

Il lavoro che cambia ha bisogno di competenze. Questo è l’asse centrale su cui vanno riorientate gli interventi pubblici in favore del lavoro, anche giovanile. E’ una vera e propria “bestemmia sociale” inaccettabile vedere come oggi 1 assunzione su 3 non vengono effettuate in Italia perché le imprese non trovano nel mercato del lavoro figure professionali adeguate. Non possiamo permettercelo.

Vi sono a mio avviso alcuni interventi che vanno dunque previsti:

  1. Rilanciare e modificare l’apprendistato professionalizzante; è stato anche in questi tempi di crisi un rapporto di lavoro che regge, ma non è più possibile pensare di farlo durare solo per ben 3 anni (oggi periodo lunghissimo di visibilità). Andrebbe messa in campo una forma più breve ma ampliando la parte formativa, contando anche sulla capacità formativa dell’impresa e con attestazioni finali sulla professione acquisita e le competenze raggiunte. Magari legando una parte degli sgravi contributivi al fatto che il giovane superi un esame in questo senso, ingaggiando in questo modo una positiva complicità tra giovane e impresa.
  2. Ma in tema di apprendistato ricordo che quello vero e comparabile con tutti gli altri paesi europei è l’apprendistato duale, che in Italia vede coinvolti poche migliaia di giovani mentre in Europa costituisce il principale canale di ingresso al lavoro. Purtroppo il titolo V affida alle Regioni questa competenza, che in verità (a parte Lombardia e Alto Adige) nessuna regione ha saputo sviluppare. Occorre un piano nazionale che intervenga sui percorsi finali di scuole professionali, istituti tecnici e corsi di laurea che obblighi a completare gli studi con un rapporto di apprendistato duale capace di rafforzare la preparazione tecnica degli studenti. Da qui non si scappa.
  3. Non servono incentivi a pioggia come le recenti misure del governo precedente hanno reiterato. Le imprese non assumono sulla base di sconti se non vedono in quel lavoratore una risorsa con basi valide. Per aiutare le imprese ad assumere giovani si potrebbe pensare a bonus ingenti che le imprese possono utilizzare per completare la formazione del candidato alla assunzione o prima della stessa o nei 4/6 mesi successivi.
  4. Il piano Next Generation EU sembra voler impegnare risorse verso il supporto agli ITS. Molto bene, sono questi oggi in diversi distretti produttivi italiani a fornire giovani ben preparati per entrare in lavori con qualifiche. In Italia abbiamo 18mila studenti in questi percorsi terziari professionali, in Germania 900mila. Esiste un rapporto diretto tra preparazione di chi lavora e produttività e pertanto non possiamo più indugiare. Sarà tuttavia indispensabile coinvolgere le università, non potranno moltiplicare questi percorsi le sole fondazioni. Le università italiane devono togliersi in parte dal piedistallo accademico e magistrale per toccare il terreno delle realtà sociali ed economiche che devono sostenere.
  5. Occorre far ripartire il mercato dei contratti a termine su basi diverse: ridando alla contrattazione collettiva il potere di regolare le causali e le durate di questi rapporti e dei loro rinnovi. Il lavoro a termine è una componente ineliminabile delle forme di lavoro “just in time” attuali. Tramutarlo da rapporto di lavoro precario a flessibile si può e si deve. Nessuna legge potrà mai stabilire che un lavoratore a termine venga assunto fisso nella azienda in cui opera. Ma va evitata la piaga di chi resta intrappolato troppo tempo in continui rapporti brevi. Serve quindi anche stabilire l’obbligo per le imprese di fare formazione durante questi contratti, di attestare la crescita professionale e le competenze acquisite e quindi di finanziare, magari tramite i fondi interprofessionali, voucher formativi alla fine del rapporto di lavoro che completino le competenze mancanti. Rendendo via via più occupabili i giovani qui occupati.
  6. Da ultimo, una riflessione sui tirocini extracurriculari, diventati una vera e propria piaga di sottolavoro quasi non pagato. I tirocini devono restare se rimangono una forte esperienza formativa, il primo passo finiti gli studi per conoscere il lavoro concreto. Ma in tal senso vanno riformati, legandoli solo a attività professionali di contenuto medio o elevato e non semplice (ovvero mai più cassiere del supermercato in tirocinio per mesi) ed evitando la replicabilità a danno del giovane. Magari offrendo alla fine del periodo una vera e propria politica attiva che ne garantisca una possibile occupazione.

 

I giovani torneranno al centro del lavoro non con politiche che si basano su incentivi ma con riforme nel rapporto tra scuola e lavoro e con un diverso ingaggio tra gli stessi e le imprese che vanno spronate a coltivare la crescita di competenze.

 

*Segretario generale Fim Cisl

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