Partecipazione civica e snellimento burocratico: insieme potrebbero sanare la distanza che si crea tra decisori e collettività quando si tratta di prendere decisioni in campo ambientale, soprattutto su rifiuti ed energia, evitando tensioni e inefficienze.
Nuovi conflitti all’orizzonte
Con l’arrivo dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinati a finanziare gli impianti per la chiusura del ciclo dei rifiuti si apriranno i soliti conflitti con i territori? Probabile.
Uno degli ultimi atti del governo Draghi, il decreto Aiuti ter, ha previsto la nomina di commissari ad acta in grado di sostituirsi ad autorità competenti (come regioni o comuni) inerti nel rilascio delle autorizzazioni per opere, impianti e infrastrutture previste dal Pnrr.
Nella scrittura dell’architettura economico-finanziaria a nessuno è venuto in mente di pensare a come reagiranno i cittadini alla vista degli impianti sotto casa. In nessun altro settore la conflittualità è alta e il livello di fiducia nelle istituzioni, e spesso anche nei confronti delle stesse aziende di gestione, è sceso ai minimi termini come in quello dei rifiuti, è quindi scontato che si aprirà una nuova stagione di proteste all’insegna del Nimby – not in mybackyard.
È una conflittualità che trova radici profonde nell’abitudine a considerare il tema come puramente amministrativo, comunque estraneo a forme di partecipazione civica. Un errore capitale, almeno a parere di chi scrive.
L’ex Ministero della Transizione ecologica, oggi Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, ha immaginato percorsi di partecipazione? Oppure, al contrario, se una comunità sarà contraria a un’ipotesi progettuale si andrà avanti con presidi stabili delle forze dell’ordine sul modello della Tav in Val di Susa?
Perché serve la partecipazione?
La partecipazione serve perché l’uomo è un essere sociale, né buono né cattivo in senso assoluto ma entrambe le cose insieme. Un essere che si nutre di relazioni, tormentato da esigenze vitali di sopravvivenza che lo costringono continuamente a scelte complesse, il più delle volte dettate da logiche utilitaristiche e individualistiche e non sempre davvero razionali.
L’uomo ha paura di ciò che non conosce, di ciò che non comprende, e nella transizione ecologica non mancano certo le novità, i cambi di prospettiva, le zone d’ombra, i punti che non si riescono ancora a mettere perfettamente a fuoco. E ciò vale in modo particolare per le dinamiche relative all’economia circolare, una completa novità per molti.
Dell’utilità di forme di partecipazione civica a supporto delle scelte in ambito ambientale, ma non solo, abbiamo già argomentato in passato. La partecipazione dovrebbe accompagnarsi a processi di snellimento burocratico, considerato che ci vogliono più di quattro anni e mezzo per realizzare un impianto per trattare rifiuti e che più del 60 per cento dell’intero iter è assorbito dai tempi della progettazione e delle autorizzazioni (fonte: Corte dei conti). Stando così le cose, sarà molto difficile rispettare i tempi del Pnrr, che vogliono che le opere si concludano entro il 2026.
Lo snellimento delle procedure dovrebbe coinvolgere direttamente il legislatore non solo per le grandi opere (finora solo due casi conclusi e sette in attività) come accade oggi con il dibattito pubblico disciplinato dal Dpcm n. 76 del 2018. Nulla è invece previsto per le piccole opere: per esempio, impianti di riciclo e selezione rifiuti, su tutti termovalorizzatori e biodigestori per la valorizzazione della frazione organica – impianti che, sebbene di piccola scala, sono capaci di sollevare vere e proprie battaglie ideologiche e politiche. È probabile che la veemenza delle battaglie derivi proprio dall’assenza di canali partecipativi atti a disinnescare le dinamiche conflittuali.
Scelte basate sul metodo scientifico
Servono, dunque, modelli di partecipazione civica, che non si sostituiscano alle istituzioni, ma le affianchino, semmai completandole. Avviare questi percorsi significa costruire un perimetro definito entro il quale si possa, da una parte, facilitare la rappresentazione dei problemi, sciogliendone eventuali nodi, dall’altra, ricondurre la legittima critica o il dissenso all’interno di un alveo definito e costruttivo. Perimetro utile sia per le comunità coinvolte, che partecipano davvero in maniera consapevole, sia per gli attori proponenti e le istituzioni stesse, che così imparano a conoscere meglio il territorio di riferimento.
I partecipanti ai percorsi di partecipazione dovranno essere consapevoli che le loro argomentazioni necessitano di essere dimostrate e suffragate da dati e informazioni verificabili e circostanziate; allo stesso tempo deve essere evitato il rischio di spostare il confronto su un piano puramente teorico/astratto e funzionale a non decidere. Il pensiero magico deve cedere completamente il posto al metodo scientifico.
Numerosi studi dimostrano che le decisioni prese nell’ambito di assemblee civiche solitamente differiscono rispetto alle opinioni raccolte tramite sondaggi. Perché? Perché nel primo si beneficia di un percorso di conoscenza, nel secondo si accede solo alle informazioni che si posseggono in quel momento (euristica dell’ancoraggio).
E proprio per evitare strumentalizzazioni e fake news, il perimetro deve essere aperto, provando a fare i conti con le strettoie della scienza post-moderna: i fatti incerti, i valori in discussione, le soluzioni solo temporanee, le decisioni urgenti.
In sostanza, l’interesse collettivo, consapevole e partecipato, dovrebbe diventare l’unico vero faro dei percorsi di partecipazione attivati. Se non possiamo costringere gli uomini a volere il loro bene, almeno gli possiamo prospettare di scegliere consapevolmente.
*28/11/2022