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Riforma fiscale, spesa e semplificazione

Il dibattito sull’uso dei fondi europei per il finanziamento della riforma fiscale va al cuore del problema. Che entrate non ricorrenti non possano essere utilizzate per finanziare una riforma che implicherà – speriamo! – minori entrate in termini permanenti è cosa fin troppo ovvia. ll punto è altro. Se – come par di capire – è la lotta alle disuguaglianze una delle stelle polari della politica economica prossima ventura, allora l’occasione che si offre all’Italia è irripetibile e passa proprio per una netta separazione fra l’ utilizzo delle risorse europee e le modalità di attuazione di una riforma fiscale. 

Perché le prime possono e devono essere indirizzate a combattere le radici della disuguaglianza nelle sue principali dimensioni. Possono e devono essere impiegate per darci una scuola ed una università che non siano – come oggi – -i luoghi dove la disuguaglianza si forma e si consolida. Possono e devono essere impiegate per fare della trasformazione digitale il momento per restituire ad ogni cittadino l’accesso alle tecnologie. Possono e devono essere utilizzate per azzerare le tante disomogeneità del nostro sistema sanitario. Se questo accadesse, la riforma fiscale potrebbe essere disegnata per perseguire un obbiettivo diverso ma oggi altrettanto importante: l’obiettivo della crescita. 

Per decenni abbiamo cercato di porre un qualche riparo alle diseguaglianze quando ormai era troppo tardi (con i risultati deludenti che conosciamo). In parte ciò è accaduto anche perché intervenire sulle radici della disuguaglianza è cosa assai più difficile – anche politicamente – che non provare ad attenuarne gli impatti e a limitarne gli effetti ex post. Ed è stato molto comodo invocare la carenza di risorse (i famosi vincoli europei) per giustificare la nostra pigrizia. Oggi non abbiamo più scuse: le risorse potrebbero non mancare e con esse la possibilità di tagliare le radici della disuguaglianza, e ciò potrebbe permetterci di fare del fisco, non già il canale della redistribuzione – ovviamente, può fare in parte anche questo (ad esempio attraverso una diversa configurazione dell’imposta di successione) – ma soprattutto la leva per la crescita.

 

Nuova Irpef e non solo

Di una riforma fiscale complessiva quindi c’è urgente bisogno. Più di quando ancora non sapevamo cosa fosse una pandemia. Ma diversamente da quanto accadeva fino a qualche mese fa, la riforma fiscale deve oggi essere parte integrante della strategia di ricostruzione del Paese. E quindi non c’è dubbio che l’Irpef vada riscritta, come molte altre parti del sistema tributario: l’equità verticale è ancora un miraggio e il profilo di progressività dell’ lrpef è insoddisfacente e colpisce solo alcuni redditi mentre l’iniquità orizzontale è una realtà fin troppo evidente. 

Ma nel farlo sarà necessario disegnare una struttura di incentivi in grado di avvicinare le donne ed i giovani al mercato del lavoro – ad esempio, introducendo l’età come un fattore su cui basare la tassazione – e rendere alle imprese più conveniente irrobustire i mezzi propri ed investire. Il che sottolinea come l’imposta sulle società richieda oggi un intervento almeno altrettanto significativo, passando alla tassazione degli utili distribuiti. Non riducendo, quindi, ma spostando nel tempo la tassazione degli utili aziendali. Se la direzione di marcia fosse questa, tre temi – fino ad oggi trattati, più che con cautela, con pavidità dalle classi politiche degli ultimi decenni – diverrebbero ineludibili.

Primo: le spese fiscali. È difficile stimarle con precisione ma il loro valore non è lontano dal 10% del Pil. Per ragioni anche comprensibili e legittime, negli ultimi mesi si sono moltiplicate. Forse non era possibile nell’emergenza fare altrimenti, ma se l’obiettivo è la crescita, è necessario imboccare una strada diversa. In un lavoro recente uno di noi ha messo in evidenza come il numero delle spese fiscali sia fortemente correlato ad alcune variabili strategiche come il disavanzo e il debito pubblico (ovvio), ma anche a un basso livello di fiducia, all’importanza del ruolo della famiglia, a un alto livello di corruzione e a un sistema politico fortemente corporativo e basato sullo scambio di favori tra gruppi di interesse e maggioranze al potere. 

L’epidemia è un’occasione unica per ripartire da zero, per eliminare le spese fiscali più inutili, inefficienti e distorsive. È il momento perfetto per intervenire sulla miriade di piccoli incentivi e sussidi in favore delle lobbies più varie – l’Italia ha una dimensione media delle spese fiscali tra le più basse dei Paesi Ocse – per condensarle su poche importanti voci come la famiglia, i figli, l’istruzione, la sanità e le pensioni. Se fatto all’ interno di una riforma globale, il costo politico della loro eliminazione potrebbe essere facilmente sopportabile: il governo potrebbe presentare, con ovvi benefici, la maggiore precisione degli interventi diretti a favore di famiglie e imprese con un altro vantaggio non da poco, semplicità e trasparenza.

Secondo: il rapporto fra gettito e spesa. Lo ripetiamo: la mano del prelievo non sa cosa fa la mano della spesa, e all’interno della prima le diverse dita si muovono in modo non coordinato. Se si vuole tornare a crescere, anche in questo caso occorre cambiare rotta. Fin dal suo avvio, l’ lrpef è stata volutamente separata dal suo «negativo», cioè dall’ assistenza, generando così un sistema di imposte e benefici scoordinato e incoerente in cui esistono molte più aliquote reali o effettive rispetto a quelle nominali, con salti e picchi notevoli in relazione a diversi valori dei redditi imponibili. Le politiche di assistenza vanno ripensate integralmente, vanno legate a forme di prova dei mezzi – non solo all’ Isee – e puntualmente mirate. La progressività del sistema non riguarda solo la distribuzione del carico tributario ma anche gli effetti della spesa pubblica. Effetti che ad oggi vengono ancora largamente trascurati e ignorati. La corrispondenza tra imposte e spesa pubblica dovrebbe, al contrario, essere stringente e considerata come un punto essenziale per la valutazione della politica fiscale e dell’azione redistributiva dell’operatore pubblico.

Terzo: la semplificazione. Si è costruito un sistema di norme gigantesco e complicato, che rende sempre più folle la macchina fiscale. Va messo un limite e semplificate profondamente le regole fiscali e resa più selettiva l’amministrazione tributaria. La diffusione delle tecniche digitali può aiutare molto al riguardo e le banche dati, molto numerose, devono parlare tra loro ed essere il perno della moderna tecnica di accertamento. Quindi, se non si parte da una drastica semplificazione non ne usciremo. Si noti che semplificare può non voler dire, di per sé, ridurre il livello del prelievo o passare a una sola aliquota (o a due, tre). Ma è difficile che non implichi una riduzione significativa del numero di balzelli di cui è disseminato il sistema. 

Chi ha sollevato il tema del rapporto fra risorse europee e riforma fiscale forse non si rendeva conto della rilevanza della questione posta. Veniamo da decenni in cui la spesa pubblica è stata usata per accontentare e il fisco per risarcire. Decenni che hanno contribuito a inceppare se non a spezzare il rapporto fra contribuenti e Stato, che hanno indotto i contribuenti a sottostimare (non sempre a torto) i benefici della spesa pubblica e lo Stato (non sempre a torto) a considerarli evasori sempre e comunque. E, anche per questa via, ci hanno consegnato gli attuali inaccettabili tassi di evasione e le deviazioni vessatorie della legislazione fiscale. Dovremmo oggi porci l’obbiettivo di fare della spesa pubblica lo strumento principale per l’equità e del fisco la leva per la promozione della crescita. Ẻ una inversione a 180 gradi che – sia detto con il massimo rispetto per la politica – vorremmo vedere prima di crederci.

 

*da L’Economia del Corriere della Sera, 08/06/2020

** insegna Scienza della finanza alla Luiss, Roma

***insegna Economia Politica all’Università di Tor Vergata, Roma

 

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