Lo scorso 24 giugno presso il Palazzo della Cooperazione in Roma è stata presentata l’ultima pubblicazione di Pierre Carniti, intitolata significativamente La Risacca. Il lavoro senza lavoro (Altrimedia Edizioni 2013). Un volume che, come si legge nella prefazione di Chiara Saraceno, è una sintesi ben articolata del pensiero che Carniti ha oramai da anni proposto in altri scritti e in varie occasioni pubbliche, “con il suo pessimismo realistico e il suo indomito idealismo che un cambiamento sia possibile e che non occorra mai smettere di tentare.
Sono le caratteristiche che gli permettono di provare a pensare al di là dell’esistente, incluse alcune consolidate categorie che pure ha maneggiato con maestria nella sua vicenda di sindacalista per molti versi eccentrico (nel senso di spiazzante, fuori dagli schemi)” (Prefazione di Saraceno, p. 8).
Carniti discute le conseguenze per la società occidentale di una imminente e drastica riduzione del lavoro disponibile, o meglio dei posti di lavoro, esito di oramai noti mutamenti nelle organizzazioni e nella struttura della produzione occidentale verso la smaterializzazione, la delocalizzazione, la finanziarizzazione. Ma in questa occasione l’Autore, più che in passato, si spinge oltre l’analisi «di quantità» per riflettere sulla valenza etica e sociale del lavoro e sulla sua funzione identificante per il singolo e di collante sociale per la comunità. Perché ancora oggi “continuiamo a «essere» anche in rapporto a ciò che «facciamo». Per questo la mancanza di lavoro, la disoccupazione, determinano una ferita grave sia alle persone che al corpo sociale” (p. 8).
Per farlo, Carniti parte da una breve ricostruzione dei mutamenti occorsi nella concezione del lavoro esibendo come nella storia “è cambiata la cultura del lavoro; è cambiato il rapporto tra l’uomo e il lavoro; è cambiata l’organizzazione del lavoro; è cambiata l’etica del lavoro” (p. 8). Si ripercorrono le concezioni del mondo greco (Socrate, Platone, Esiodo…) e romano (Virgilio, Lucrezio…), l’etica cristiana antica e medioevale (Sant’Agostino, San Benedetto, San Tommaso), la nuova etica protocapitalistica insediatasi dal Rinascimento (Pico della Mirandola, Giovanni Calvino) e consolidatasi nell’età industriale, in cui si sperimenta la parcellizzazione del lavoro meccanizzato e razionalizzato esito del connubio tra scienza, tecnica e capitale. L’organizzazione di fabbrica si riverbera sull’organizzazione sociale, ne detta i tempi e la composizione in classi, la geografia delle città e i consumi. La pervasività del fenomeno, non a caso appellato come «rivoluzione» anche per la fede positivista nelle possibilità dell’uomo e della sua tecnica, vede invocare nel pensiero occidentale una nuova concezione di società, in cui proprio la divisione del lavoro o la progressiva specializzazione funzionale avrebbero richiesto e consentito nuove forme di solidarietà tra organi funzionalmente preposti alla produzione di beni e servizi diversificati (Comte, Spencer, Durkheim…).
Come noto, è in questa fase che comincia a palesarsi la condizione disumana del lavoro di fabbrica, che rende visibile e concentra nuove forme di povertà industriale in cui alla deprivazione materiale (bassi salari, condizioni abitative, sanitarie e igieniche precarie ecc.) corrisponde un’alienazione, frutto – in sostanza – della spoliazione dei lavoratori dal prodotto dei propri sforzi (Hegel, Marx, Engels…). Effetti – o eccessi – negativi di un’organizzazione sociale diseguale a lungo affrontati nel pensiero ecclesiastico, che Carniti richiama dalla Rerum Novarum (1891) fino alla Redemptor hominis di Giovanni Paolo II. Si sottolinea una soluzione cattolica di tipo realistico, distante dal liberismo così come da un socialismo che vede in alcune pretese del lavoro un eccesso di rivendicazione, e in cui la concezione stessa del lavoro e il modo con cui si esplica non è separata dalla condizione dell’uomo.
La ricostruzione proposta dall’Autore semplifica la storia del pensiero ma è di certo utile, morbida alla lettura e chiarificatrice del file rouge che – come anticipato – fa da sfondo a tutto il volume; le concezioni del lavoro nel passato (organizzazione, etica, senso…) ci servono ad affrontare con maggiore complessità “la novità dei problemi del lavoro nel mondo contemporaneo. Soprattutto a tenere conto che, considerandoli solo dal punto di vista della tecnica, dell’efficienza economica, equivarrebbe esporsi a errori gravidi di pericolose conseguenze. Perché l’uomo vive «mentre» lavora e sarebbe vano sperare in un’umanità che possa sopravvivere in quanto tale, se la ricerca di soli obiettivi economici a breve e medio termine mutilasse l’uomo del «senso» del lavoro, della sua dignità, del suo riconoscimento economico e sociale. In sostanza della sua vita” (p. 56).
La situazione contemporanea è affrontata da Carniti dal secondo capitolo, centrato sulle conseguenze che la seconda ondata di globalizzazione (quella a cavallo tra XX e XXI secolo) sta avendo sulle economie e sui mercati del lavoro in Occidente e, di conseguenza, sulle condizioni e sul ruolo stesso del lavoro. Seconda ondata globalizzante, poiché Carniti sottolinea – come non sempre accade – che la crescente velocizzazione degli scambi e delle telecomunicazioni, l’interdipendenza nei destini dei governi e dei mercati e la de-territorializzazione delle relazioni economiche e sociali non è invenzione del nostro tempo. Già la forza produttrice dell’età industriale, una volta appaiata al colonialismo politico e mercantile e ad innovazioni tecniche per le telecomunicazioni e i trasporti, aveva avviato crescenti spinte globalizzatrici. Ciò che connota la globalizzazione attuale, oltre alla intensificazione del fenomeno, riguarda alcuni mutamenti qualitativi dell’economia e del lavoro, almeno in Occidente. Più nello specifico, “il dato di fatto da tenere presente è che di quella «società industriale» il capitalismo del XXI secolo ha organizzato deliberatamente la distruzione. Sia perché ha considerato la protezione sociale un compito del tutto estraneo alle proprie responsabilità, ma soprattutto perché ha progressivamente dissociato le diverse fasi dell’attività produttiva le une dalle altre. Non stupisce quindi più di tanto che nella dialettica politica ed economica vengano continuamente sollecitate misure tendenti a incoraggiare cure dimagranti per il sistema di protezione sociale e nello stesso tempo provvedimenti per favorire delocalizzazioni, le esternalizzazioni, i subappalti, per le funzioni ritenute complementari al cuore dell’attività produttiva” (p. 63-4).
Sotto il cappello della new economy ci si è spostati dalle funzioni di produzione a quelle di ideazione e commercializzazione dei prodotti e dei marchi costruiti altrove. Per il resto si tratta di operazioni di riparazione e manutenzione e di tutta quella serie di attività connesse al terziario tradizionale o poco qualificato, spesso coperto da manodopera immigrata. È in questo ambito che si concentra la diffusa flessibilizzazione delle posizioni lavorative, tendenza e scelta apparentemente inevitabile per “resistere” nell’economia globale, attrarre investimenti e creare occupazione (sic). Ed è in questo quadro che si registra un acuirsi della differenza nella distribuzione delle risorse, e i ricchi diventano sempre più ricchi.
L’Occidente è dunque in costante perdita di lavoro materiale – delocalizzato o meccanizzato – e vede completarsi quel processo di terziarizzazione incapace di assorbire, per ora, l’offerta di lavoro disponibile. Il dilemma resta allora il seguente: come si affronta l’aumento della disoccupazione? Le risposte consuete appaiono clamorosamente inadatte e informano la produzione stessa degli interventi per l’occupazione: si parla spesso di ‘congiunture sfavorevoli’, di cicliche depressioni e si propongono riforme strutturali o politiche degli incentivi tarate sull’offerta convinti che si possa far rientrare o quantomeno riorientare la dinamica in positivo, verso la piena occupazione. Ed è su questo punto che la tesi di Carniti – già espressa ampiamente nelle sue precedenti uscite – rimarca la sostanziale impossibilità di tornare a un’occupazione piena, stabile e regolare come nei “trenta gloriosi”, anche basandoci su un’insperata ripresa dall’attuale crisi.
Ciononostante, non occorre abbandonarsi al pessimismo, non siamo sconfitti. Ma di fronte a un fenomeno epocale occorre una scelta di campo, una nuova concezione del lavoro e della sua organizzazione, così come della sua etica, che permetta la redistribuzione del lavoro esistente sul massimo numero possibile di persone. Nelle sue proposte per il caso italiano, Carniti individua quattro interventi che si possono implementare nell’immediato e un mutamento più consistente dal quale avviare tale ridefinizione del lavoro. I 4 interventi riguardano:
- Adeguamento degli orari di lavoro italiani alla media europea (tra i Paesi OCSE in Italia lavoriamo più di tutti, 1774 ore annue a persone contro le 1704 in Usa, le 1625 in UK, le 1476 in Francia e le 1406 in Germania);
- Impulso al part-time volontario, come strumento di conciliazione e non solo per le donne;
- Promozione del pensionamento flessibile per superare il blocco del turn over quale barriera all’ingresso dei giovani nel lavoro;
- Attivazione di un “servizio civile obbligatorio” per i giovani tra i 20 e i 25 anni di ambo i sessi, da impiegare in attività socialmente utili dietro compenso, per abituarli al lavoro e socializzare loro una cultura della solidarietà de della coesione sociale.
Si tratta di misure utili e fattibili, ma che non costituiscono la risposta definitiva alla sempre più grave questione della mancanza di lavoro, che va affrontata invece andando oltre, tramite “un cambiamento pacifico della mentalità, tale da consentire una trasformazione radicale. Una rivoluzione pacifica che non comporterà né morti né feriti, ma soltanto piccoli affanni. Come richiede ogni fase di adattamento. Ogni cambiamento di abitudini” (p. 123). Se si vuole davvero affrontare alla radice il problema, “la strada maestra da imboccare è quella di una progressiva riduzione degli orari, in funzione di una diversa distribuzione del lavoro” (p. 126). In modalità differenziate e di sicuro con interventi non sistemici, questa via è stata affrontata già in Francia (riduzione a 35 ore della settimana lavorativa) e in Germania (il Kuzarbeit, cd. lavoro breve, via di mezzo tra Cig e «contratti di solidarietà»).
In altre parole, se il progresso tecnologico nella produzione di beni comporta strutturalmente una riduzione del fabbisogno di manodopera e se le ristrutturazioni, i ridimensionamenti e le «cure dimagranti» sono premiate dal mercato, ci si deve misurare con questa nuova sfida con una “decisiva battaglia politico-culturale (anche in funzione di una più equa distribuzione)” (p. 129). Occorre decidere di imboccare coraggiosamente strade nuove rispetto a quelle improduttivamente seguite finora, mettendo il tema del lavoro realmente al centro del dibattito per evitare che la disoccupazione si trasformi, nei fatti, essenzialmente in un problema dei disoccupati, spesso con conseguenze drammatiche, come per l’accadimento emblematico riportato da Carniti nel capitolo conclusivo (a p. 133) e di seguito ripreso integralmente:
“È sabato notte degli inizi di febbraio 2013, a Guarrato, in un paese di 1.300 abitanti in provincia di Trapani, Giuseppe Burgarella, un edile senza lavoro da tre anni, si mette una corda al collo e si toglie la vita. Lascia un «pizzino» disperato, tra le pagine della Costituzione. Il libro che è il fondamento della Repubblica. Su quel biglietto Burgarella ha elencato tutti i morti «per disoccupazione» degli ultimi due anni. L’ultimo nome in fondo alla lista è il suo. A fianco dell’elenco due frasi secche: «Se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione»”.