Chi si aspettava che le parti sociali presenti nel CNEL potessero dare unanimemente a Brunetta quello che non avevano dato a Meloni, non aveva presente le implicazioni che ha un confronto su un tema così sensibile qual’è il salario minimo legale. Per come si sta dipanando la matassa, c’è da supporre che i tempi non saranno brevi. Finchè la questione non assume la sua reale consistenza e cioè non diventa discussione su come si colloca il lavoro povero nel sistema delle relazioni sindacali del nostro tempo, difficilmente se ne verrà a capo.
Il CNEL ha fatto il suo mestiere con serietà, tanto che si è incagliato soltanto su un aspetto del “come” il lavoro povero può essere tutelato. Ha fornito alcune soluzioni tecniche che torneranno utili se decollerà un confronto ad ampio raggio ma è rimasto scoperto il nodo della opportunità di usare la legge per definire un salario minimo di riferimento. Mentre è chiaro il riconoscimento che la questione è da affrontare, optando in via preferenziale per un coinvolgimento diretto delle parti sociali su questo fronte. Anzi, ha fatto di più; si è cimentato nell’elencazione dei settori in cui il fenomeno è più scandalosamente presente, risultando abbastanza corposo e incontestato.
Quanti hanno votato contro il documento si sono limitati a considerare dirimente l’assenza di un esplicito ricorso all’uso della legge per la definizione della paga oraria, pur sapendo, da collaudati sindacalisti e valenti studiosi, che essa non è la panacea di tutti i mali che riguardano il lavoro povero. Mi sorprende che non abbiano ancora chiesto, alle controparti che hanno votato a favore, di aprire un tavolo di discussione a tutto campo, senza escludere di giungere ad un avviso comune che vincolasse l’intervento del Governo alle indicazioni concordate.
Si capirebbe meglio se quanti hanno approvato quel documento, specie dal lato imprenditoriale, fanno sul serio o prendono tempo, sperando in realtà che nulla accada. Non è un’illazione che un significativo ambito di imprenditoria nostrana è convinta sostenitrice della necessità di un’area di marginalità sempre più ampia del mercato del lavoro, sia per garantirsi molta flessibilità, sia per tutelare situazioni imprenditoriali di voluta e mai risolta fragilità.
Sotto il profilo squisitamente politico, un accordo che incorniciasse l’istituzione di un salario minimo o di categoria (come sembra suggerire il CNEL) o unico (come prefigura la proposta dell’opposizione parlamentare) entro l’applicazione sia dell’articolo 46 (sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa) che dell’articolo 39 (riconoscimento erga omnes dei contratti stipulati da organizzazioni maggiormente rappresentative) della Costituzione, sarebbe classificato come “progressista”.
Infatti, darebbe senso ad un processo di ricomposizione del mercato del lavoro e di riconferma del sindacato come autorità salariale a tutto tondo. L’opposto delle tendenze in atto che smagliano sempre di più l’arco delle condizioni di lavoro che vanno dalle più tutelate (fino al rischio di corporativizzarle) a quelle nient’affatto tutelate (fino al rischio di schiavizzarle). Ma soprattutto minano in radice l’autorevolezza contrattuale del sindacalismo confederale.
A fianco alle punzecchiature dei “contratti pirata” si potrebbero estendere rapidamente le coltellate che verrebbero dalla magistratura se si consolidassero due sentenze di questi giorni della Corte di Cassazione (le n. 27711 e 27769 del 2 ottobre). Esse considerano possibile che un giudice possa decidere qual’ è il salario giusto ed equo, anche prescindendo da quanto previsto dal contratto di riferimento. Non solo quello minimo, ma quello professionale di un qualsiasi lavoratore che si rivolgesse alla magistratura per farsi riconoscere un trattamento economico e normativo più soddisfacente. Sento già lo sferragliare delle lame che avvocati, consulenti del lavoro, commercialisti stanno mettendo a punto per andare all’assalto dell’autorità contrattuale del sindacato.
I vuoti si riempiono sempre, specie se prevalgono le cadute di certezza giuridica, la babele dei linguaggi e l’inconcludenza di quanti sono più interessati. Non credo che la politica possa fare molto per evitare questo ingorgo avvelenato. Il Governo ha già ringraziato il CNEL per aver rinviato alle parti sociali la questione. Ai partiti di maggioranza interessa supportare quanti non vogliono cambiare l’attuale situazione. I partiti di opposizione sventoleranno doverosamente questa bandiera, pur sapendo i limiti di praticabilità dell’obiettivo.
Il cerino è in mano ai sindacati confederali. Di fronte ai rischi che si profilano, non possono attendere tempi nuovi. E’ in questo tempo che si dovrebbe “risindacalizzare” la questione della tutela del lavoro povero, rafforzando il ruolo e i poteri di autorità contrattuale di cui magna pars è quella di essere autorità salariale indiscussa. Uno sforzo di unità di proposta, prima ancora di una dimostrazione di forza, sarebbe un contributo apprezzabile di leadership sociale e autonoma.