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Dal mattone al progetto, dai beni culturali al brand Italia

Da ragazzo volevo diventare architetto e designer ma, già ai tempi dell’università, negli anni ’70, decisi che avrei fatto il designer e basta. Tra le ragioni della scelta, questa: il valore di una casa è direttamente legato alla sua dimensione e alla sua posizione nello spazio urbano o in quello rurale; in parole più semplici, al prezzo per metro quadrato. Il progetto, di conseguenza, nelle normali transazioni immobiliari, è ancora oggi percepito come residuale, se non addirittura come un fastidio (vincoli ecc.).

Quella del designer, invece, è una professione relativamente più recente, e si basa su un rapporto di reciproco interesse con il committente. In questo senso, il design diventa un valore aggiunto da assegnare a prodotti, servizi, imprese ma anche a istituzioni e territori per migliorare la proposizione e quindi la relazione coni rispettivi pubblici di riferimento. Non a caso, l’autobiografia (del 1951) di un pioniere del design contemporaneo, Raymond Loewy, si intitolava “La bruttezza si vende male”…

Ho voluto aprire con questa nota personale perché per decenni ho vissuto la contraddizione di un Paese che per un verso si proclama patria del bello e, per un altro, commette continui furti di bellezza al paesaggio (e non solo) attraverso una logica che tra progetto e mattone ha sempre preferito quest’ultimo.

L’attaccamento al mattone è in un certo senso il responsabile non dichiarato di un’Italia che si vende male perché non sa valorizzare adeguatamente la sommatoria (e la rete) dei patrimoni che è in grado di offrire.

Ma il cambiamento che il mondo intero sta vivendo, e che ci tocca, sia come individui sia come società, sta trasformando in profondità la visione dei fenomeni. La quarta rivoluzione industriale ha introdotto una concezione inedita della vita e quindi del nostro agire: concetti come la condivisione, la sostenibilità, la disintermediazione si affermano con forza e con rapidità sorprendenti e pongono in evidenza il ruolo dei cosiddetti valori intangibili.

Il cambiamento è tuttavia tale sono quando si è concretamente e compiutamente manifestato.

Prima, cioè ora, si coglie solo l’inefficacia delle vecchie regole e non si conoscono ancora quelle nuove: questa è la transizione.

Ed è una fase che richiede di essere governata, richiede cioè un continuo riallineamento tra preesistenza e nuovo, attraverso politiche in grado di leggere il presente e di disegnare il futuro.

Mi pare che la politica dei beni culturali in Italia sia passata dal tempo del mattone alla valorizzazione del progetto; dalla mera attività di conservazione alla consapevolezza che la bellezza, l’arte, la cultura richiedono partecipazione attiva, networking. La cultura digitale ha iniziato a contaminare il latifondo artistico, turistico e culturale del nostro Paese.

Sono tra quelli che hanno sentito sempre stucchevole il richiamo alla quantità del nostro patrimonio d’arte e cultura, finché non fosse diventato qualità condivisa, fruizione, consapevolezza. Qualcosa è cambiato? Credo di sì. Almeno in questo segmento della nostra vita civile e politica sarebbe un errore non avvertire che, nel corso della legislatura che si è conclusa, abbiamo superato un “punto di svolta”. Per più di un motivo: per l’intervento della leva fiscale, essenziale per ogni opera di quantità; per l’introduzione di nuove prassi amministrative, che hanno consentito di sdoganare la parola stessa, burocrazia, dalle polverose sensazioni che si evocavano parlando di musei e soprintendenze; per le attività di promozione e di comunicazione che, sole, possono trasformare in “brand”, marca, valore, aspirazione, l’indistinto quantitativo che richiede spiegazioni e distinguo.

 

Provo ad andare con ordine. Il vantaggio fiscale fa la differenza, sempre. L’art bonus ha reso possibile il rilancio del mecenatismo. Un credito di imposta al 65% per le donazioni in favore della cultura, accessibile per imprese e singoli cittadini, ha fatto “emergere” più di 4000 mecenati, che con una raccolta di quasi 160 milioni di euro, hanno reso possibili 1150 interventi. L’estensione della tax credit per il cinema e l’audiovisivo italiano, dopo mezzo secolo di carenza legislativa, ha riacceso l’industria e l’artigianato del settore.

Al fisco segue l’organizzazione. La burocrazia, come la “fortuna” dei latini, è una parola neutra, che si qualifica con l’aggettivo che l’accompagna. Peccato che nel nostro Paese sia diventata sinonimo di “cattiva burocrazia”, di polvere e ostacolo, di freno e zavorra. L’organizzazione burocratica del settore museale e delle soprintendenze ha finito per coincidere con la prassi dell’immobilismo conservativo. Con la riforma del Mibact, i principali musei italiani sono diventati istituti autonomi, dove i direttori, selezionati con concorsi internazionali, hanno avviato gestioni dinamiche e manageriali, con vantaggio del bene conservato e dei cittadini e dei turisti. Il boom dei visitatori e degli incassi hanno dato ragione di un’affermazione reboante, ma solo apparentemente guascona, del ministro Franceschini, che ama definire “l’Italia una superpotenza culturale e il Ministero della Cultura il più grande dicastero economico del Paese”.

Fisco intelligente e organizzazione manageriale hanno prodotto partecipazione, anche grazie a un’attenta azione di promozione (dai 500 euro del bonus giovani al Cinema2day, alle domeniche gratis al museo) e di comunicazione. La buona comunicazione non è mai un orpello, è un racconto condiviso, che produce valori distintivi e qualificativi, e quindi brand. Un prodotto di marca si distingue da uno non di marca perché non deve essere più spiegato: tutti sanno che una Ferrari è un’automobile, uno Swatch è un orologio e un IPhone è uno smartphone.

Credo che il patrimonio artistico e culturale dell’Italia avesse bisogno di questo: di essere fruito, non solo sognato, ma praticato, condiviso. La destinazione Italia è già la prima al mondo ad essere indicata come meta possibile, più ambita, ma è la quinta per presenze e, per fortuna, il numero dei turisti sia stranieri sia italiani continua a crescere. Le immagini dell’Italia postate su Instagram fanno del nostro Paese il primo per numero di tag: ben 70 milioni. Sono già marca, brand. Devono potersi trasformare in esperienza: la user experience è il valore principale della marca.

La buona comunicazione, se si associa ai buoni prodotti, diventa garanzia di successo. L’esperienza professionale che ho avuto l’occasione di fare per il rebranding del portale dei Musei Vaticani – per non citare le occasioni italiane della Biennale di Venezia o del più recente intervento a Pompei – mi ha insegnato che è cambiata la fruizione del bene artistico e museale. E che la migliore attività di conservazione è l’incentivazione della fruizione consapevole e sostenibile. Non c’è fruizione che non parta da una nuova abitudine: sentire gli spazi artistici, museali, culturali, turistici come parte di una possibile esperienza personale, che, benché praticabile, “possibile”, diventa eccezionale, esclusiva, unica, condivisibile.

E’ una strada intrapresa dalla politica dei beni culturali e c’è da augurarsi che sia senza ritorno perché il metodo è quello giusto per rilanciare realmente il “brand” Italia in tutte le sue espressioni. E sono davvero tante.

*Brand designer, Presidente di Inarea 

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