Come ha reso noto il Financial Times, l’Ucraina avrebbe concordato i termini dell’accordo sulle terre rare con gli Stati Uniti. Zelensky e Trump sarebbero pronti, a questo punto, a fare comunicazioni decisive in vista dei negoziati per la fine delle ostilità. Una soluzione del conflitto che, appunto, passa dalle risorse minerarie dell’Ucraina, come del resto il suo inizio. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, autore del libro “La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino” (Rubbettino 2022).
Sabella, l’intesa tra Washington e Kiev sulle terre rare pare vicina. Possiamo dire che è più vicina, o meno lontana, anche la pace?
Si tratta di una guerra molto efferata e sanguinosa, per cui la cautela è d’obbligo. Tuttavia, pare che Kiev abbia deciso di accettare perché avrebbe avuto rassicurazioni dalla Casa Bianca: gli USA hanno rivisto le loro richieste basate su 500 miliardi di dollari di entrate potenziali derivanti dallo sfruttamento delle risorse. E alcuni funzionari ucraini fanno sapere di aver negoziato condizioni molto più favorevoli con gli americani. Su queste basi, le trattative per la pace possono fare un notevole passo avanti.
Perché la pace passa dalle terre rare?
Perché, come sappiamo, Trump ha buone possibilità di mediazione con Putin. E gli USA vogliono reintegrare la Russia nell’economia occidentale in ottica anticinese. Ma gli americani – che dall’inizio sostengono l’Ucraina – vogliono una contropartita: le terre rare, oggi preziosissime per l’innovazione tecnologica e digitale. Le terre rare sono fondamentali per la produzione di smartphone e televisori, ma anche per tutta la filiera eolica, per la fibra ottica e per quella della diagnostica medica. Oltre che per i motori elettrici. E, di terre rare, l’Ucraina è molto ricca.
Ma la Russia? Putin è interessato alla fine delle ostilità?
La Russia guarda con molto interesse alle aperture degli USA, sia per le opportunità che offre questa situazione inedita, sia perché anche a loro interessa la fine del conflitto, sia perché sanno bene che “l’amicizia senza limiti” tra Mosca e Pechino, in realtà, di limiti ne ha molti per i russi. A Putin non pare vero di poter uscire da questa morsa e sa che dagli USA e, anche, dall’Europa, può ottenere vantaggi importanti per una ripresa dell’economia russa, che è al collasso.
Cosa può cambiare nel rapporto tra USA, UE e Russia?
Con l’inizio del conflitto, tre anni fa, Stati Uniti ed Europa hanno ridotto pesantemente le importazioni dalla Russia in particolare di gas, petrolio, metalli e minerali, fertilizzanti, prodotti chimici e alimentari. La Russia è una grande regione molto ricca di materie prime e risorse naturali. E ha un’economia basata sulla loro esportazione. La ripresa di questi commerci per la Russia può rivelarsi molto importante. Inoltre, dividere Mosca e Pechino – un po’ come nel 1972 fecero Nixon e Kissinger (anche se in questo caso si trattava di staccare Pechino da Mosca) – può avere effetti importanti sulla situazione internazionale: la Cina ne uscirebbe ridimensionata, soprattutto sul piano militare, perché al momento non è una grande potenza e si è avvalsa sino a oggi dell’arsenale russo. In tutti i focolai più caldi del mondo (Ucraina, Israele, Suez, Corea), Russia e Cina da anni muovono una guerra asimmetrica all’Occidente.
Perché, se la Russia è così ricca di materie prime, questa guerra si sarebbe combattuta – come lei sostiene nel suo libro – proprio per le risorse minerarie e, in particolare, per le terre rare?
Il vero nodo della questione è quello di capire perché il problema delle materie prime oggi è così importante tanto da causare guerre. Ma la storia della transizione energetica dell’uomo ci insegna che per ogni nuova scoperta di fonti di energia sono scaturite guerre per l’accaparramento. Lo è stato per il carbone, per l’acciaio, per il petrolio. Ai giorni nostri, con la pandemia è crollato il già traballante e vecchio ordine mondiale. Il recente allargamento dei Brics è un elemento importante in questo senso. In particolare, con il decoupling delle catene del valore – ovvero con l’inizio del disaccoppiamento della tecnologia e dell’economia occidentale da quella asiatica – diventa strategico per le grandi piattaforme industriali controllare gli approvvigionamenti di materie prime. Consideriamo che il cambio di rotta della globalizzazione inizia con il back reshoring delle produzioni avviato da Obama, più o meno nel 2013. Poi nel 2015 abbiamo segni evidenti di rallentamento del commercio mondiale e nel triennio 2017-2019, prima della pandemia, la regionalizzazione delle economie era già disegnata: i mercati hanno iniziato a riorganizzarsi attorno alle grandi piattaforme produttive (Usa, Cina, Europa) anche per effetto dei dazi di Trump (2016). È in questo quadro, accelerato poi da pandemia e guerra, che scatta la corsa all’approvvigionamento: se ben ricordiamo, la crisi di microchip, gas e materie prime è qualcosa che inizia nel primo anno di pandemia, dopo il lockdown mondiale e la conseguente forte ripartenza delle produzioni. Tra i diversi Paesi del mondo, inoltre, vi era disallineamento dei lockdown e, in particolare, dei paesi fornitori: il Vietnam è stato in lockdown fino a novembre 2021.
Cosa avviene quindi in quel momento?
La Cina, approfittando del calo dei prezzi, in quel periodo acquista ovunque materie prime strategiche, dai chip e minerali a cereali e cotone. Una vera e propria “corsa all’accumulo”, non soltanto per immagazzinare scorte, ma anche nella consapevolezza che l’Europa sarebbe andata in difficoltà. Questa corsa all’approvvigionamento significa, anche, passare dalla produzione just in timealle scorte di magazzino che avevamo quasi dimenticato. La crisi delle materie prime e l’inflazione nascono da qui. La guerra delle materie prime, con la crisi ucraina, conosce poi il suo aspetto più cruento: i territori occupati dai russi sono proprio quelli più ricchi di materie prime, in particolare proprio di gas, litio e terre rare. Si tratta, peraltro, di scoperte geologiche recenti che, nel 2021, hanno portato ad accordi tra Bruxelles e Kiev.
In cosa consistono questi accordi?
Proprio per la ricchezza del suo territorio, nel 2021 l’Ucraina è stata ufficialmente invitata a partecipare all’Alleanza europea sulle batterie e le materie prime con lo scopo di sviluppare l’intera catena del valore dall’estrazione alla raffinazione e al riciclo dei minerali nel Paese, in particolare del litio. A luglio 2021, l’allora vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič si è recato a Kiev per incontrare il primo ministro ucraino Denys Shmyhal. In quell’occasione, è stato firmato il partenariato strategico sulle materie prime. E questo è stato certamente uno dei fattori di destabilizzazione del rapporto Russia-UE. Inoltre, a novembre 2021, la European Lithium Ltd – società di esplorazione e sviluppo proprietà minerarie che ha sede a Vienna – si è accordata con la Petro Consulting Llc – azienda ucraina con sede a Kiev – che dal governo locale aveva ottenuto i permessi per estrarre il litio dai due depositi che si trovano a Shevchenkivske nella regione di Donetsk e a Dobra nella regione di Kirovograd, vincendo la concorrenza proprio della Chengxin. Era il 3 novembre 2021. Un mese dopo, Putin iniziava a mandare i carrarmati al confine. E, due mesi dopo, scatenava la guerra in Ucraina.
La rielezione di Trump è evidentemente un fattore che può portare alla fine della guerra. Come può finire questa situazione conflittuale? L’Europa davvero può trovarsi tagliata fuori dai negoziati e dai vantaggi che possono scaturire dalla fine delle ostilità?
È ridicolo pensare che la guerra in Ucraina finisca con un trattato bilaterale tra Washington e Mosca, come si è fatto intendere nel momento in cui Trump ha preso iniziativa. Il presidente americano ha il merito di aver avviato un negoziato col Cremlino al più alto livello. Ma è evidente che da questo negoziato non possono stare fuori l’Ucraina, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, l’Italia, la Polonia. Certo l’Europa ha le sue fragilità ma – stando a quanto dice il Kiel Institute for the World Economy – i fondi che ha inviato in Ucraina sono superiori a quelli americani: gli USA hanno stanziato circa 119 miliardi, con 67 miliardi in arsenali; l’Europa, l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera, hanno assieme inviato 138 miliardi, 65 in aiuti militari. L’Europa ha anche concordato quasi altri 120 miliardi in aiuti ancora da stanziare, mentre gli Usa sono oggi fermi. Quindi, non è pensabile che l’Europa resti fuori da questi negoziati. Se il ruolo di Bruxelles è marginale, non possiamo dire lo stesso del ruolo che stanno sempre più assumendo Francia, Germania e Italia. Inoltre, io penso, l’ingresso dell’Ucraina nella UE avrà un’accelerazione. E l’UE resta ancora oggi il più importante mercato del mondo, cosa favorirà una ripresa e un consolidamento dell’economia ucraina. E credo che da tutto questo anche l’Europa trarrà i suoi benefici, penso alle terre rare e alle materie prime delle miniere ucraine, cosa molto importante perché allenterebbe l’attuale dipendenza dell’Europa dalla Cina. Del resto, la UE è stata la prima ad accordarsi con Kiev.
Dal sito: www.rainews.it