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Scuola e autonomia: Maneggiare con cura, pericolo di rottura

Quando si parla di autonomia differenziata riferendosi all’assetto del sistema di istruzione bisognerebbe sempre considerare la questione come un involucro sul quale apporre l’etichetta: “Fragile. Maneggiare con cura”.  Ciò per l’ovvia ragione che l’istruzione e la formazione dei cittadini di un Paese sono questioni con una nutrita serie di implicazioni, tutte di primaria importanza: la capacità concorrenziale del Paese stesso, il livello di civiltà dei suoi abitanti, lo sviluppo delle facoltà critiche degli individui, e chi più ne ha, più ne metta. Ma soprattutto (ed è qui il delicato nucleo fondante della questione) la Scuola è la depositaria della memoria collettiva e dell’identità della Nazione. 

Come si sa, quello di Nazione è un concetto molto caro alla nuova classe dirigente italiana: più di quello di Stato, che contiene in sé un più marcato riferimento all’ apparato di governo; più di quello di Paese, che è un concetto geo-politico, e più di  quello stesso di Popolo, che indica il complesso degli abitanti di un determinato territorio, tutti posti sotto la medesima giurisdizione, ma che possono ben avere, come testimonia la presenza di varie minoranze nella gran parte dei paesi europei, una diversa matrice etnica. Nazione, invece, è l’insieme degli individui che per nascita (in latino la parola “natio” indica tanto nascita che nazione) condividono un insieme di tradizioni, una lingua, una storia, e, quindi, una cultura. Alla luce di ciò vanno lette alcune lapidarie affermazioni dei “Padri Costituenti”: Concetto Marchesi, che affermò “La scuola non è da trattare alla stregua di un collegamento stradale o di un regolamento di acque. La scuola è il massimo e, dirò, l’unico organismo che garantisca l’unità nazionale” (Atti Assemblea Costituente, pagg. 3203-4); e Piero Calamandrei, di cui è nota l’affermazione secondo la quale la scuola va considerata alla stregua di un organo costituzionale (III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale, Roma 11 febbraio 1950). 

Una seconda premessa, nell’analizzare il nesso tra istruzione e autonomia differenziata, va fatta in relazione all’esperienza storica maturata nella gestione della formazione professionale da parte delle Regioni, da considerare come una sorta di prova generale, di prefigurazione del possibile esito della gestione regionale del sistema scolastico.  Di fatto, il precedente non è confortante, se è vero che il sistema di Istruzione e Formazione Professionale è distribuito a macchia di leopardo sul territorio nazionale, e va da punte di eccellenza, non a caso dislocate nelle regioni laddove esiste un sistema produttivo strutturato, alla sostanziale assenza in altri territori. Ma non è tanto, o non è solo, la frammentazione territoriale a colpire, quanto l’assenza di una vera progettualità regionale in questo campo, che, pure, sarebbe una leva importante delle cosiddette “politiche attive” del lavoro. In molte Regioni, la gestione del sistema di IeFP non è collegata ad una programmazione delle figure professionali di cui l’economia territoriale ha bisogno, ma si limita a seguire una domanda formativa per lo più inconsapevole degli esiti occupazionali, a causa della persistente mancanza di un serio orientamento scolastico e lavorativo. Le Regioni, in sostanza, con esclusione di quelle del Nord, spesso amministrano pigramente le risorse destinate al sistema, dando l’impressione di badare più al ritorno in termini di consenso che allo sviluppo di una politica coerente con le esigenze territoriali. 

E già che l’occasione viene buona, varrà la pena anche di fare un fugace accenno a quella che, di fatto, è ad oggi l’unica competenza effettiva delle Regioni rispetto al sistema scolastico statale: ossia l’allocazione dell’offerta formativa sul territorio regionale, il cosiddetto “dimensionamento delle istituzioni scolastiche”. Per i non addetti ai lavori, si tratta dell’accorpamento delle istituzioni scolastiche che non raggiungono i numeri di legge per godere dell’autonomia, nonché delle operazioni di distacco e riaggregazione di singoli plessi operate per il riequilibrio dei numeri stessi tra le diverse scuole. Capita spesso e (mal)volentieri di trovarsi di fronte ad un desolante mercato politico tra sindaci, assessori, personale scolastico impegnato in politica, nel quale le esigenze oggettive della Scuola sono variamente interpretate a seconda della convenienza individuale. Cattivi esempi di gestione che fanno riaffiorare il dubbio, anche nell’animo dei più convinti assertori della democrazia diretta, che non sia bene che il potere decisionale sia troppo vicino al cuore pulsante degli interessi dei singoli, se si vuole davvero evitare la degenerazione della democrazia stessa. 

Fatte queste premesse, non tutte consolanti, in verità, si può iniziare a parlare del Disegno di legge Calderoli, con il quale si tenta di dare attuazione, dopo oltre venti anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, all’autonomia decentrata, o regionalismo asimmetrico che dir si voglia. 

Come si legge nella relazione di accompagnamento, la manovra del governo si attua lungo due direttrici: da una parte un disegno di legge, appunto quello presentato dal ministro per gli affari regionali e le autonomie, teso a stabilire le procedure e i principi che regolano la concessione dell’autonomia alle Regioni che ne fanno richiesta, e, dall’altra parte, la fissazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). Contestualmente, viene stabilita una commissione paritetica Stato Regioni per il trasferimento delle risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie per l’attuazione dell’autonomia differenziata. 

È evidente che la questione si trova ad uno stadio ancora molto precoce, perché, come si usa dire, “il diavolo sta nei dettagli”. Si tratta, difatti, di capire quali saranno i LEP fissati per la Scuola, se si avrà il passaggio, oltre che delle risorse finanziarie, anche di quelle umane (tralasciamo quelle strumentali, nel cui campo gli enti locali e le regioni hanno già delle competenze), come opererà il Fondo perequativo, quali saranno le richieste delle Regioni, visto che il procedimento si attua su iniziativa regionale, a valle della quale deve essere stabilita un’intesa tra Stato e Regione richiedente. A tale proposito, va subito rilevato che l’autonomia differenziata sarà davvero “molto differenziata”, perché solo la Lombardia ha chiesto di vedersi attribuire tutte le materie potenzialmente devolvibili (23), mentre le altre Regioni si accontentano di spazi autonomi più limitati (cinque/sei materie o ambiti di materie). 

Onestamente, anche chi nutre dubbi sull’opportunità del regionalismo asimmetrico ha difficoltà a negare che il disegno di legge Calderoli sia sostanzialmente equilibrato nel delineare un quadro di procedure e principi che tengono conto dei diversi e delicati aspetti di un’operazione così complessa, che, almeno in parte, cambia il codice genetico del Paese. Il difetto, semmai, sta nel “manico”, ossia in quell’affrettata riforma del Titolo V della Costituzione che, pure senza essere stata mai attuata fino in fondo nel ventennio alle nostre spalle, ha dato già molto lavoro alla Corte Costituzionale (anche in materia scolastica) per risolvere nodi che, comunque, alla fine sono rimasti intricati. Difficile sottrarsi alla sensazione di un lavoro fatto in tutta fretta, senza adeguata riflessione e caratterizzato da azzardi che speriamo non debbano costarci troppo. 

Indicativo, da questo ultimo punto di vista, il modo in cui è stata trattata la questione delle “norme generali sull’istruzione”. L’art. 33, comma 2, della Costituzione, così come scritto dai Costituenti, recita testualmente: “la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. In questo articolo della Costituzione, a differenza di altri, la parola Repubblica equivale a Stato, in quanto il soggetto “Repubblica” istituisce le “scuole statali”. Altrove, invece, i Costituenti parlarono di Stato per riferirsi all’apparato centrale e, invece, di Repubblica per indicare l’insieme delle entità di governo, ossia le Regioni e, subordinatamente, gli Enti Locali, oltre lo Stato stesso. È evidente, anche alla luce dei sopra citati interventi di Marchesi e Calamandrei, che i Costituenti concepirono la fissazione delle norme generali sull’istruzione come una competenza propria dello Stato centrale, in forza degli interessi vitali che la questione coinvolge. È quindi coerente con questa impostazione la scelta operata nel 2001, in sede di riforma del Titolo V della Costituzione, di attribuire questa materia alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, come fa l’art. 117, comma 2, lett. n della Costituzione. Sennonché, il principio sancito dall’art. 117 è contraddetto, dalla medesima riforma del 2001, dall’art. 116, comma 2, laddove le norme generali sull’istruzione vengono indicate come materia sulla quale possono essere concesse ulteriori forme di autonomia alle regioni che ne facciano richiesta. Quindi, le “norme generali sull’istruzione” che i Padri Costituenti consideravano con la sacralità e il rispetto che abbiamo visto, per i Costituenti del 2001 si trasformano, da prerogativa irrinunciabile dello Stato, in una materia, tutto sommato, trattabile, se le Regioni lo richiedono, quindi “alla stregua di un collegamento stradale o di un regolamento di acque”, con buona pace di Concetto Marchesi e del suo “latinorum”. 

Difficile sottrarsi all’impressione di una certa contraddittorietà, che si traduce, anche sotto il profilo della tecnica legislativa, in una lettura faticosa, che contrasta con la linearità, la coerenza e il tono “asciutto” che erano propri del testo uscito dall’Assemblea Costituente. Ma se il testo è oscuro e contraddittorio, c’è il fondato sospetto che ciò sia il riflesso non solo dell’oggettiva complessità della materia, ma, soprattutto, delle idee non chiarissime e delle intenzioni non lineari che mossero il legislatore costituzionale del 2001. 

*Pubblicista, ex Segretario Regionale CISL Scuola

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