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Se si ricomincia a parlare seriamente di reddito minimo

Nel dibattito politico si riaffaccia il tema del reddito minimo (garantito, di inserimento, di solidarietà attiva, di inclusione, o come lo si voglia chiamare). Di recente Tito Boeri e Roberto Perotti (1) hanno riaperto con lucidità la discussione.

 

L’arretratezza della situazione italiana risalta vistosamente dal confronto con i paesi dell’Unione Europea (2). Ma emerge altrettanto crudamente da uno sguardo a gran parte delle esperienze italiane di contrasto della povertà che si sono succedute negli ultimi quindici anni, a partire dal Reddito minimo di Inserimento (Rmi), e dallo stesso modo confuso con cui l’argomento è affrontato nel discorso pubblico.

REDDITO MINIMO: DI CHE COSA STIAMO PARLANDO?
 
Il Reddito minimo (Rm) è un programma contraddistinto da quattro tratti qualificanti.
(a)   È informato all’universalismo selettivo, detto altrimenti è erogato a tutte le famiglie che si trovano sotto una determinata soglia di povertà, che varia in funzione della composizione della famiglia. Non è dunque ristretto a particolari categorie di famiglie o persone, né sottosta a un vincolo di finanziamento che tipicamente porta al razionamento.
(b) Consta innanzitutto di un trasferimento monetario che integra il reddito familiare fino alla pertinente soglia di povertà, tiene quindi conto della disponibilità (il reddito e il patrimonio) e dai bisogni (la composizione) della famiglia.
(c)  Affianca al trasferimento monetario azioni di sostegno sociale e, per le persone in età lavorativa e abili al lavoro, azioni di attivazione al lavoro (orientamento, formazione, placement) sostenute da condizionalità, nel senso che, in una logica di obblighi reciproci, il beneficiario non può sottrarvisi né rinunciare a ragionevoli offerte di lavoro, pena la riduzione del trasferimento o l’esclusione dal programma.
(d) Il programma ha carattere strutturale, quindi durata illimitata. Certo,  sussistendone le condizioni mira a portare le famiglie all’autosufficienza economica, quindi ad uscire dalla “trappola della povertà” – e dal programma stesso. Ma eroga il trasferimento monetario, e le azioni di sostegno connesse,  fino a che la famiglia permane nella condizione di povertà.
 
Se introdotto, il Rm assorbirebbe tutte le misure categoriali mirate a contrastare la povertà (e in Italia sono una miriade). Ad affiancarlo rimarrebbero misure con altre finalità: vuoi di contrasto di specifiche condizioni di disagio, quali la disabilità e la non autosufficienza; vuoi politiche mirate ad altri obiettivi, quali il sostegno per i figli, la conciliazione
lavoro-famiglia e simili.  
 
D’altra parte, il Rm nulla ha a che vedere con l’ipotesi di un reddito di cittadinanza: un reddito universale, che garantisce a qualunque persona un trasferimento monetario a prescindere dalle sue condizioni economiche, slegato da qualsiasi obbligo. Un’ipotesi interessante sul piano della filosofia sociale, ma largamente impraticabile per ragioni vuoi economiche, vuoi di accettabilità sociale.
 
LE MOLTE OMBRE DELLE ESPERIENZE ITALIANE
 
Nel 1998 il Rmi era decollato in maniera promettente, come sperimentazione su piccola scala – una quarantina di Comuni – orientata ad “apprendere dall’esperienza”in vista di una auspicabile generalizzazione del programma alla scala nazionale.
Ma le cose sono procedute in maniera contraddittoria e confusa, a causa di due cesure, dovute rispettivamente al ciclo politico e al riassetto in chiave “federalista” introdotto dalla riforma costituzionale del 2001.
 
Al ciclo politico si deve la chiusura dell’esperienza del Rmi, sostituito con la legge finanziaria per il 2004, da un fantomatico “reddito di ultima istanza”, mai attuato. Ancora più solerte, poi, è l’abrogazione, dopo una manciata di mesi, nel maggio 2008, del reddito di base del Friuli Venezia Giulia, decollato nel settembre 2007. In entrambi i casi, ciò avviene col subentro di un’amministrazione di centro-destra a una di centro-sinistra. A ben vedere, in entrambi i casi, non si tratta soltanto di chiusure di specifiche esperienze, ma di cambiamenti di rotta, che accantonando la prospettiva stessa di un’organica politica di contrasto della povertà in favore di molteplici interventi che poggiano sul tradizionale impianto categoriale del welfare italiano, su maggiori margini di discrezionalità, su un sovraccarico di compiti affidati agli enti locali, per di più accompagnato da trasferimenti di risorse magri quando non decurtati.
 
La riforma costituzionale del 2001, con l’ulteriore spostamento delle competenze in tema di assistenza sociale dallo Stato alle Regioni, stimola sì l’iniziativa delle Regioni. Ma è un’iniziativa tanto vivace quanto segnata da inadeguatezze. Esemplari, in proposito, sono le carenze, quando non le incongruenze, del Reddito di cittadinanza (!) della Campania e del Reddito minimo garantito del Lazio. Due le evidenze salienti, e preoccupanti.
 
(1)   Si parla di «sperimentazione», ma in sostanza si afferma che i programmi sono provvisori, di breve durata, segnati dalle ristrettezze del bilancio.
(2)   Si imbocca l’illusoria strada dei pronunciamenti enfatici (il titolo della legge campana è rivelatore), affiancati da programmi contraddittori con tali pronunciamenti: nelle due regioni l’intervento consiste, di fatto, nel solo trasferimento monetario, per di più in cifra fissa quindi neppure correlato ai fabbisogni delle famiglie povere (nel Lazio addirittura è su base categoriale e personale); vi è un forte razionamento, sicché la percentuale di beneficiari rispetto ai richiedenti ammissibili è decisamente bassa.
 
In sostanza non si sono venuti consolidando strumenti in grado di dare attuazione a un coerente, progressivo impegno sul versante della lotta alla povertà. E c’è da interrogarsi se ci sia, nelle classi dirigenti così come nell’opinione pubblica, adeguata consapevolezza dei termini del problema. Ne sono una spia la sciatta disinvoltura con cui in appelli pubblici si parla, vagamente, di “reddito di cittadinanza”; o tout court il fatto che lo si nomini a sproposito, quanto si avanza una proposta (dal Movimento 5 Stelle, se ben capiamo) – che nulla ha a che fare con il Rmi  –  di un reddito minimo a termine, di tre anni, per i senza lavoro .
 
MA IL REDDITO MINIMO SI PUÒ FARE: IL CASO DELLA PROVINCIA DI TRENTO
 
Ma un serio, sostenibile, reddito minimo si può cominciare a realizzare. A breve, Acli e Caritas lanceranno un “Patto aperto contro la povertà”, che poggerà su una circostanziata proposta di introduzione progressiva del “Reddito di inclusione sociale” (3).
Inoltre, qualcuna delle esperienze in atto si iscrive fra le virtuose. Il caso più recente è quello del Reddito di Garanzia (RG) della Provincia autonoma di Trento (PAT): un trasferimento monetario che porta a 6.500 euro annui il reddito disponibile equivalente (in base all’Icef, l’indicatore della situazione economica familiare trentino, una versione affinata dell’indicatore nazionale), accompagnato da azioni di integrazione sociale e di attivazione al lavoro.
 
I lineamenti amministrativi e finanziari di questa misura sono stati recentemente illustrati da Gianfranco Cerea (4). Qui riporteremo, invece, i risultati delle analisi sull’equità e sull’efficacia del RG che l’Istituto per la Ricerca Valutativa sulle Politiche Pubbliche (IRVAPP) ha iniziato a condurre dal momento in cui la misura è stata disegnata.
 
Un primo indicatore,di carattere amministrativo più che economico o sociale, del grado di equità di una politica di sostegno al reddito è, ovviamente, costituito dalla proporzione dei suoi beneficiari che hanno davvero titolo per riceverla, che non ci siano cioè “falsi positivi”. Nel corso del primo anno di applicazione della misura (2010), gli uffici della PAT – attraverso accurati controlli – avevano stabilito che circa il 93% delle famiglie inizialmente ammesse alla misura ne rispettavano le condizionalità. Poiché quei controlli sono continuati nel tempo e la numerosità dei falsi positivi si è progressivamente ridotta, si può ragionevolmente assumere che attualmente la loro presenza sia pressoché nulla.
 
La questione più importante che pone un programma quale il RG trentino riguarda, però, la sua capacità di migliorare le condizioni di vita delle famiglie beneficiarie. Su questo argomento, Irvapp ha svolto una rigorosa valutazione degli effetti secondo l’approccio “contro fattuale”. Sono state condotte due rilevazioni, a distanza di due anni l’una dall’altra (2009 e 2011), su un campione di 600 famiglie che hanno avuto accesso al RG e su un campione di oltre 900 famiglie con reddito disponibile equivalente superiore, ma non troppo, alla soglia dei 6.500 euro annui e si sono misurate le variazioni nelle condizioni di vita rispettivamente registrate dai due campioni, nel biennio. Si è quindi calcolata la differenza fra queste variazioni – la cosiddetta differenza nelle differenze: nella ragionevole ipotesi che in assenza del RG sarebbero state le stesse nei due gruppi, questa differenza fornisce una credibile stima degli effetti del programma. I risultati principali sono riassunti nella tavola che segue. Essa riporta la media dei miglioramenti (o peggioramenti) in alcuni significativi ambiti delle condizioni di vita conosciuti dalle famiglie trattate e imputabili causalmente al RG (ossia determinati al netto di eventuali altre variazioni, positive o negative, dovute a fattori diversi dal RG stesso).
 
Tavola
Valutazione degli effetti del RG sui fenomeni di deprivazione materiale, sulla spesa
per consumi e sulla partecipazione al mercato del lavoro nell’arco dei due anni seguenti
all’ingresso nel programma, secondo la nazionalità del capo-famiglia. Valori medi.
Condizioni di vita
Nazionalità del capo-famiglia
 
Italiana
Straniera
Probabilità di vivere in condizioni di deprivazione
-0,04
-0,16**
Spesa mensile per consumi alimentari (in euro)
-7,12
+96,99*
Spesa mensile per beni durevoli (in euro)
+113,50*
+75,85*
Tasso percentuale di partecipazione alla forza lavoro
-4,96
+5,93*
Tasso percentuale di disoccupazione
-6,05*
+4,02
* pÂ0,10; ** pÂ0,05
Fonte: IRVAPP, 2012, Rapporto preliminare sugli impatti del Reddito di Garanzia nel periodo Ottobre 2009-Ottobre 2011, a cura di N. Zanini.
 
Dai dati in questione si possono trarre le seguenti conclusioni: 
 
i)       Il RG ha effetti più estesi tra gli immigrati che tra i nativi per la buona ragione che mediamente peggiori, anche tra le famiglie che hanno accesso al RG, sono le condizioni di vita dei primi;
ii)     il RG produce riduzioni dei rischi di trovarsi in condizioni di severa deprivazione materiale e lo fa in misura davvero incisiva nel caso delle famiglie immigrate;
iii)    il RG aumenta significativamente le capacità di spesa mensile per alimentari degli immigrati ma non per i nativi (per i quali rimane sostanzialmente invariata) perché questi ultimi appartengono assai più spesso dei primi a famiglie di dimensioni assi più ridotte, composte da soggetti anziani e con minori bisogni di carattere alimentare;
iv)    il RG consente significativi incrementi della spesa mensile in beni durevoli e lo consente più per i nativi che per gli immigrati proprio perché i primi devono sostenere minori spese alimentari;
v)     il RG o, meglio, le misure di attivazione da esso previste non producono effetti particolarmente incisivi sull’occupazione (si noti che le variazioni nel tasso di partecipazione alla forza lavoro e nel tasso di disoccupazione sono dello stesso segno, peraltro negativo per i nativi e positivo per gli immigrati). Naturalmente, quest’ultimo risultato va giudicato alla luce della generale contrazione dell’occupazione indotta dalla crisi economica e tenendo conto che, in ogni caso, il RG non genera alcun disincentivo alla partecipazione al mercato del lavoro.
 
SI PUÒ TRARRE QUALCHE INSEGNAMENTO DALL’ESPERINZA TRENTINA?
 
L’esperienza del RG trentino, in atto, ormai, da 43 mesi, dimostra che è possibile dar vita, anche nel nostro Paese, a serie misure contro la povertà basate sul criterio dell’universalismo selettivo, ossia capaci di garantire l’accesso ai benefici da esse previsti a tutte le famiglie che si trovano in condizioni di effettive ristrettezze economiche, senza dover ricorrere a poco compassionevoli dinieghi ex post, causati da stime meramente intuitive della platea dei beneficiari e dell’opportuno ammontare delle erogazioni e senza, per questo, far saltare i bilanci pubblici.
 
In particolare il RG trentino prova che gli obiettivi appena espressi possono essere raggiunti a condizione: (i) di modulare l’ammontare e la durata delle erogazioni in rapporto alla consistenza dei reali bisogni dei beneficiari; (ii) di controllare sistematicamente il rigoroso rispetto delle condizionalità di accesso alla misura; e (iii) di accompagnarla da interventi di attivazione rispetto al mercato del lavoro. In effetti il costo medio annuo della misura trentina è stimabile in 16 milioni di euro, pari a meno di 3 euro al mese per residente. Questa esperienza dimostra, infine, che le misure di reddito minimo richiedono un attento, quasi quotidiano, governo del loro funzionamento al fine di renderle via via più efficienti, eque ed efficaci.
 
Questi risultati possono essere raggiunti solo se al disegno “politico” e “amministrativo” della misura si accompagna, fin dall’inizio, il disegno “tecnico” della sua valutazione; se quest’ultima si configura anche come rigorosa valutazione degli effetti, improntata alla logica “contro fattuale”, e non solo come generico monitoraggio di carattere amministrativo e contabile; infine, se gli esiti della valutazione di impatto sono presi in seria considerazione da quanti rivestono le responsabilità politiche e amministrative.
 
(*) IRVAPP – Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche e Universita’ di Trento
(**)IRVAPP – Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche e Universita’ di   Padova
Note
(1) Boeri T. e R. Perotti, “Reddito di cittadinanza e reddito minimo garantito”, Lavoce.info, 05.03.2013
(2) Vedi recentemente Perazzoli G., “Reddito minimo garantito: ce lo chiede l’Europa”, Micromega, 3, 2013, pp. 175-187.
(3)   Buona parte delle valutazioni sull’esperienza italiana vengono da Spano P., U. Trivellato e N. Zanini, Le esperienze italiane di misure di contrasto della povertà: che cosa possiamo imparare?, Quaderno tecnico n 1, 2013, che sarà presto disponibile nei siti di Acli e Caritas.
(4)   Cerea G., “Il reddito minimo? Si può fare”, Lavoce.info, 15.03.2013

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