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Senza interventi non si sconfigge il caporalato

In un bel libro del 2019 scritto da Luca Ricolfi – La società signorile di massa (La nave di Teseo) – si espone un’analisi della società italiana tanto interessante quanto spietata, perché tra le caratteristiche che vengono descritte c’è quella sulla “infrastruttura paraschiavistica” che consente di mantenere stili di vita e abitudini di consumo grazie allo sfruttamento estremo di una quota di lavoratori deprivati di pressoché qualsiasi tipo di tutela o protezione. Nel saggio Ricolfi stima che questa fascia di lavoro vulnerabile e fragilissima – nel 2019 – fosse pari a circa 3,5 milioni di persone, in grande parte composta di immigrati.

La morte di Satnam Singh a Latina a seguito del grave incidente sul lavoro, e del suo abbandono, è la rappresentazione più vivida e drammatica di questo modello socio-economico. Che aggiunge alla responsabilità diretta e immediata di chi ha sfruttato e poi rifiutato di salvare il 31enne indiano quella più sfumata, diffusa e non sempre consapevole, di consumatori che attendono di poter acquistare prodotti a un prezzo che non consente di remunerare il lavoro necessario per produrlo, trasformarlo e distribuirlo. Prendete il volantino delle offerte di un qualsiasi operatore della grande distribuzione e, con grande probabilità, troverete frutta o ortaggi proposti a un valore che non è in grado di coprire i suoi costi di produzione.

Quando un evento tragico come la morte di Satnam Singh riporta all’attenzione pubblica la realtà del caporalato e dello sfruttamento dei braccianti si invoca una stretta sui controlli, che è certamente una delle risposte da porre in essere, ma se si tralascia di intervenire sulla determinante principale del fenomeno – l’architettura della filiera economica che la genera – non ci può essere campagna di ispezioni o di contrasto che possa far fronte a un fenomeno alimentato in modo così strutturale.

L’esperienza della “Rete del lavoro agricolo di qualità”, un meritevole meccanismo di qualificazione delle aziende del settore, ha dimostrato come uno schema meramente volontaristico non sia sufficiente a contrastare un comportamento tanto radicato.

Occorre guardare ad altre esperienze e istituti che, intervenendo nelle filiere di produzione, hanno determinato modifiche strutturali del comportamento degli operatori economici. L’esempio più efficace è quello del Documento unico di regolarità contributiva (Durc) di congruità, ossia l’evoluzione del tradizionale e ben noto certificato di regolarità contributiva che, in chiave sperimentale, è stato introdotto per i lavori edilizi della ricostruzione del centro Italia dopo il terremoto del 2016. Il buon risultato di quella sperimentazione ha poi consentito, nel 2021, di generalizzare l’utilizzo dello strumento agli appalti pubblici e agli appalti privati sopra una certa soglia economica (per inciso, a dimostrazione che anche in Italia è possibile disegnare politiche pubbliche a seguito di un intervento sperimentale di cui si misurano gli impatti).

Cosa fa il Durc di congruità? Attesta la congruità della manodopera in edilizia, ovvero la coerenza tra i lavoratori utilizzati in un cantiere e l’entità delle opere da realizzare. L’ammontare delle certificazioni prodotte ha consentito di metterle a confronto con la dimensione della committenza pubblica e privata nel settore delle costruzioni, portando all’emersione di circa cento mila lavoratori che in precedenza operavano in condizioni di lavoro nero o irregolare.

Detto ciò la questione dovrebbe essere: è possibile replicare un analogo meccanismo in agricoltura, o almeno in alcuni settori dell’agricoltura dove il rischio di sfruttamento è più rilevante?

Sul piano tecnico la risposta è assolutamente positiva. Il motivo è chiaro e anche paradossale. Già da tempo vengono stimati, per singola tipologia di coltura, i fabbisogni di manodopera standardizzati. Si chiamano “tabelle ettaro colturali”. Basta una ricerca in rete per vederle approvate con delibere delle Giunte regionali. Il paradosso è che questo strumento viene utilizzato per finalità (utili ma) ben diverse dalla lotta al caporalato. Ad esempio, per qualificare cosa è un’azienda agrituristica. Poiché questa dev’essere una azienda agricola con annessa una funzione extra-alberghiera, si applicano le tabelle ettaro colturali per evitare che si definisca agriturismo una struttura meramente ricettiva in assenza di produzione agricola.

Quindi, dal punto di vista tecnico, la definizione di un meccanismo di certificazione del “lavoro congruo” in agricoltura è già disponibile. E non potrebbe che perfezionarsi, tenuto conto che con poche elaborazioni sarebbe possibile standardizzarlo ulteriormente anche rispetto a caratteristiche proprie del settore agricolo: il diverso livello di meccanizzazione delle produzioni (ad esempio: il pomodoro che va alla trasformazione viene raccolto principalmente da macchine, ma non quello “da mensa o insalata”); l’impatto sul lavoro degli eventi metereologici; la struttura familiare di alcune imprese, l’orografia e la latitudine del terreno ecc.

Perché allora non è già in progettazione un sistema di Durc di congruità obbligatorio per gli acquisti di produzioni agricole effettuati dalle aziende della trasformazione o della distribuzione? Una delle ragioni, se non la principale, è che la sua introduzione andrebbe a generare un’importante redistribuzione della ricchezza lungo la filiera produzione-trasformazione-distribuzione-consumo.

La sua introduzione andrebbe a generare un’importante redistribuzione della ricchezza lungo la filiera produzione-trasformazione-distribuzione-consumo. Si torna quindi alla riflessione di Ricolfi. Perché se si trattasse solo della redistribuzione della ricchezza generata dal lavoro in agricoltura rispetto a quella trattenuta dalle fasi della trasformazione e della distribuzione, il problema sarebbe importante ma più definito.

Ma in questo caso agisce sul sistema anche la pressione esercitata dal consumatore, ovviamente antagonista di misure che, per remunerare in modo congruo alcuni lavori agricoli, finirebbero per scaricare il costo del lavoro sul prezzo del bene alla vendita. Anche ipotizzando la neutralità della filiera, cioè l’assenza di comportamenti opportunistici delle aziende di trasformazione e grande distribuzione.

Si tratta quindi di una scelta politica di grande rilevanza, per gli stakeholder coinvolti, per l’impatto diffuso sull’opinione pubblica, inoltre perché avverrebbe in un mercato non certo chiuso, ma esposto alle dinamiche del commercio europeo e internazionale che già hanno provocato l’arretramento di talune produzioni italiane, tanto da avere trasformato l’Italia in sostanziale importatore di numerosi prodotti agricoli.

Tuttavia, per quanto ardua, lo sfruttamento del lavoro in agricoltura è un tema che non può essere affrontato con la scorciatoia della sola stretta sui controlli. Questa è un ingrediente necessario sul quale investire. Ma per tutto quel che si è detto, se non si introducono misure per l’adeguata remunerazione del lavoro agricolo fingeremmo di non conoscere il meccanismo che tiene in vita l’infrastruttura paraschiavistica di cui abbiamo parlato e, soprattutto, sveleremmo l’indisponibilità a recedere dal beneficio diffuso che questa ci consente di godere.

*da Rivista Il Mulino, 27/06/2024

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