Lo scorso 3 marzo il Coreper, l’organo che riunisce gli ambasciatori permanenti presso l’Unione europea, ha rinviato a data da definirsi il voto definitivo del Consiglio Europeo che il 7 marzo scorso avrebbe dovuto dare l’approvazione finale dello stop in Europa alla vendita di auto nuove diesel e benzina dal 2035.
In precedenza era stato dato il via libera da parte del Parlamento Europeo al regolamento che prevede lo stop alla vendita di auto con motori endotermici (principalmente diesel e benzina) dal 2035, con l’approvazione in linea di principio da parte della maggioranza del Parlamento (ad eccezione della Polonia, che votò contro, e con l’astensione della Bulgaria), Il Coreper tornerà sulla questione a “tempo debito”, ha comunicato il portavoce della Presidenza svedese del Consiglio Ue, Daniel Holmberg.
Questa decisione arriva in un momento in cui le principali case automobilistiche presenti in Europa hanno avviato importanti piani di investimento per l’elettrificazione delle loro piattaforme, anche sulla base degli orientamenti forniti da tempo proprio dall’UE. Il rinvio, quindi, non fa altro che aumentare l’incertezza in un settore che, soprattutto a seguito della pandemia, sconta una crisi importante in termini di vendite e di reperimento di componenti a partire dai microchip in tutta Europa.
Certo la transizione verso una mobilità ad impatto zero – come sindacato dei metalmeccanici lo ribadiamo da tempo – va fatta senza paraocchi ideologici. L’elettrico non può essere la soluzione dogmatica, cosa che avevamo segnalato da tempo e un anno fa attraverso un documento presentato all’allora governo come Fim, Fiom, Uilm e Federmeccanica, chiedendo politiche mirate. L’approccio alla transizione a nostro avviso deve infatti premiare la neutralità tecnologica, verificando tutte le alternative e possibilità che la ricerca e la tecnologia offrono, sia in termini di riduzione dell’impatto ambientale della mobilità che sul piano dell’impatto sociale. Questo settore, non va dimenticato, pesa oltre il 19% del Pil nazionale (tra industria e servizi connessi), impiega oltre 1.6 milioni di addetti e rappresenta il settore industriale con il più alto moltiplicatore di valore aggiunto. Il rischio quindi è che, se non valutiamo bene la direzione che vogliamo prendere, rischiamo solo di indebolire ulteriormente le nostre imprese e di riflesso, l’occupazione, cedendo sovranità industriale e tecnologica a Cina e Stati Uniti. La pandemia, prima, e la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, poi, ci hanno fatto scoprire le fragilità del nostro continente in termini energetici e di materie prime. Per questo, da molti anni, come FIM chiediamo, insieme alla CISL, una politica industriale europea che sia anche socialmente sostenibile. Invece fino ad oggi l’Unione Europea si è rivelata capace di definire obiettivi ambiziosi, ma incapace di mettere in campo politiche di sostegno integrate ed adeguate.
Non imputiamo all’Europa la scelta di avere impostato un programma ambizioso per l’automotive sostenibile. Non siamo il sindacato che punta a conquistare 2/3 anni di slittamento delle scadenze. Imputiamo all’Europa di non aver accompagnato il piano Fit fort 55 con un robusto piano europeo a sostegno della transizione industriale, che riguardi anche la componentistica e la coesione sociale. Per questo ribadiamo la necessità di dotarci di un Fondo Sociale Europeo per la transizione del settore dell’automotive, che permetta di reindustrializzare il comparto e soprattutto di tutelare i lavoratori.
Uno strumento di questo tipo sarebbe prezioso per realizzare una politica industriale comunitaria capace di far fronte, da una parte, al dumping cinese, e dall’altra, ai sussidi governativi varati dal governo americano, che sul settore sta investendo miliardi di dollari.
Henry Ford, quando inventò la catena di montaggio, fece in modo che i suoi operai potessero comprare le auto che producevano. Oltre un secolo dopo l’Europa rischia invece, se non saprà gestire bene la transizione energetica e digitale del settore, di condannare alla cassa integrazione decine di migliaia di lavoratori, che non potranno tra l’altro permettersi di acquistare l’auto elettrica, e dall’altro di mettersi nella condizione di dipendere da Cina e USA.
Sarebbe una vera beffa. Proprio per questo né Italia né l’Europa possono pensare di fare una buona politica industriale sul settore dell’automotive senza coinvolgere le parti sociali e ragionare insieme sulla direzione da prendere.
Il governo italiano non dovrebbe puntare solo a bloccare decisioni e processi intrapresi vantandosi di fermare le politiche europee. Cosa intende mettere in campo a fianco di industrie e sindacati che continuano a farsi carico da soli della tenuta sociale della transizione. Perché questo Paese ha messo in campo 120 mld di risorse pubbliche con il Superbonus per l’edilizia e solo 8 miliardi per i prossimi 8 anni per l’automotive? La politica industriale pesa di più e diversamente dei consensi elettorali.
Per concludere, oggi nessuno sa davvero che cosa la ricerca sulle nuove tecnologie della mobilità riserverà nel prossimo futuro. Sui bio-carburanti si dia gambe alla ricerca ma diteci presto quanto costerà un litro di bio-fuel e se ce ne sarà per tutti. Ragion per cui il rinvio del voto in ambito europeo può essere considerato positivo solo se servirà a fare chiarezza e a mettere in campo le necessarie politiche d’indirizzo per il settore. Quello di cui non c’è bisogno è perpetuare l’attuale situazione di incertezza, che rischia di frenare le scelte negli investimenti e sulle tecnologie, mettendo ancor di più a rischio l’occupazione.
Non possiamo permetterci che l’industria dell’auto diventi dopo anni di indifferenza il “campo di battaglia” tra diversi orientamenti e famiglie politiche. Piuttosto servono subito risposte chiare, che diano la direzione al settore e permettano di confermare e realizzare gli investimenti e l’occupazione necessari. E’ nell’interesse di tutti i cittadini europei. Nel mese di marzo Fim, Fiom, Uilm, insieme a Federmeccanica, avanzeranno ulteriori proposte sul settore. Sarà l’occasione per il Governo italiano di rispondere. Non attraverso comunicati stampa ma con un coinvolgimento pieno e preventivo di tutte le parti sociali interessate.
Se il tempo servirà ad assumere migliori decisioni sulle tecnologie sulle quali investire e sulle politiche di accompagnamento e sostegno al settore, questo stop sarà utile al bene comune di cittadini, lavoratori e industria.
*Segretario Generale FIM CISL