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E se sulla onda di Macron nascesse il partito dell’ Europa?

In Francia, dunque, per la prima volta i due partiti che si sono alternati al potere dal 1958 sono stati esclusi dal ballottaggio per l’elezione del Presidente della Repubblica. “Partiti”, per la verità, è una parola grossa. Il movimento gollista, chiaramente, non era un partito, e non lo è diventato neanche quando è morto De Gaulle. Da allora, anzi, specialmente qui in Italia, abbiamo familiarizzato col termine rassemblement per indicare la galassia di notabili, movimenti e associazioni che, una volta ogni cinque anni, si aggregavano a sostegno del candidato della destra all’Eliseo.

Quanto al Partito socialista, è noto che Mitterrand lo fece rinascere dalle ceneri della Sfio, aprendo le porte ai sindacalisti della Cfdt e ad altri cattolici come Jacques Delors, ad “enarchi” come Michel Rocard e la rete dei club che era nata attorno a lui, e perfino a visionari dell’autogestione come Gilles Martinet o Pierre Rosanvallon. Ma nel 1981 le elezioni le vinse l’Union de la Gauche, non il Ps. Solo dopo Mitterrand, con gli strumenti della politique politicienne che sapeva maneggiare meglio di chiunque, dopo aver promesso di changer la vie cambiò invece il governo, scaricando i comunisti, e facendo così emergere il profilo autonomo del Ps. Ma già quindici anni fa, con l’esclusione di Jospin dal ballottaggio, si era manifestata la debolezza del potere di coalizione dei socialisti in seno alla gauche plurielle.

Oggi diremmo che erano partiti “leggeri”: partiti che ieri – negli ultimi due decenni del secolo scorso – un po’ invidiavamo, costretti come eravamo nella gabbia partitocratica con cui avevamo sostituito il partito unico del Ventennio. Chi di noi, fra i meno giovani, non ha evocato almeno una volta la figura del “partito dei club”? E chi non ha invidiato anche un sistema elettorale e istituzionale che proteggeva questa forma partito?

Tuttavia ogni medicina, prima o poi, produce dipendenza e perde efficacia: anche quella del doppio turno e del semipresidenzialismo, che escludeva dall’Assemblea nazionale il Front national e concentrava il potere esecutivo in capo ad un partito “forte” di poco più del 10% dei voti. Ed è innanzitutto in questo contesto che va letto il successo di Macron, che è tutto tranne che un campione dell’antipolitica, come invece ha detto Ilvo Diamanti in un commento a caldo. Tanto che cinque anni fa, dopo avere esplorato accuratamente i “labirinti della politica” formatisi in mezzo secolo di V Repubblica, scriveva su Esprit che “il discorso politico non può essere un discorso tecnico”, ma deve rappresentare “un’idea della società e della sua trasformazione”: per cui era ”giunto il momento di ridare all’ideologia la sua forma contemporanea”,  e di fare emergere “un politico che parli di grandi storie”.

Di “grandi storie”, del resto, ha parlato Macron in campagna elettorale. Della grande storia dell’Europa e delle sue prospettive, innanzitutto: una storia che Mitterrand e Chirac, pur essendo europeisti, coltivavano alla maniera di Nicodemo, l’uno nascondendosi dietro il culto della grandeur e l’altro prospettando all’orizzonte il sol dell’avvenire. Per Macron, invece, l’europeismo non è una “varia ed eventuale”, né un vincolo ereditato senza beneficio d’inventario. E’ il cleavage principale attorno a cui si determina la selezione delle forze politiche nel secolo in cui viviamo: e da questo punto di vista il nuovo presidente francese è tutt’altro che un “centrista”. E non è detto che sia un male se il suo successo coincide con l’insuccesso degli eredi (presunti?) di Mitterrand.

Era ora, infatti, che i socialisti francesi si svegliassero dal letargo. Così come sarebbe ora che i socialisti si svegliassero anche nel resto d’Europa, smettendo di elaborare il lutto per la fine del compromesso socialdemocratico (un episodio durato poco più di trent’anni), e di fare invece i conti col capitalismo globalizzato, da umanizzare come venne umanizzato il capitalismo nei suoi due secoli di vita (senza dimenticare che il capitalismo ha comunque “i secoli contati”, come diceva Giorgio Ruffolo qualche anno fa).

Rispetto ai socialisti, infatti, Macron può svolgere la stessa funzione che a suo tempo svolse Mitterrand: anche se – per evitare che ancora una volta il morto acchiappasse il vivo – aveva rifiutato di partecipare alle primarie del Ps, ed ora ha accolto con freddezza l’adesione alle sue liste dei reduci del governo Hollande. E perfino se questa non fosse fino in fondo la sua intenzione soggettiva. Sono infatti le condizioni oggettive a spingerlo verso quell’approdo.

Dovrebbero tenerne conto i cacadubbi che ora lo aspettano al varco delle prossime elezioni legislative (e che confrontano il margine con cui ha distaccato Marine Le Pen con quello con cui quindici anni fa Chirac distaccò suo padre): i quali hanno letto troppo frettolosamente il risultato elettorale. In particolare hanno sottovalutato che l’Opa di Macron sul partito socialista ha avuto successo fin dal primo turno, se solo si confronta il suo 24% col 6% di Hamon (anche al netto di quella porzione di elettorato socialista che avrà preferito Mélenchon); e non hanno considerato che il 60% conseguito dal giovane enarca vale politicamente molto di più dell’82% che nel 2002 portò all’Eliseo l’ex sindaco di Parigi. Macron infatti non è l’espressione di un generico “Fronte repubblicano” destinato a sciogliersi subito dopo le elezioni, ma è il riferimento di un’area europeista che fin d’ora dovrà fare i conti con un’opposizione forte del 40% dei voti: ed in politica niente rafforza di più che avere un potente avversario.

Del resto, è la prima volta che i francesi eleggono un presidente così esplicitamente europeista: il quale, per giunta, se non si mette immediatamente en marche per rafforzare l’Unione europea non si sa bene dove possa andare. E se si considera che, come ha ricordato Schauble in una recente intervista alla Repubblica, ”il trasferimento di pezzi di sovranità nazionale all’Europa non è mai fallito per colpa della Germania o dell’Italia, ma piuttosto della Francia”, la marcia di Macron in Europa non sarà una traversata del deserto.

Si dirà che Schauble non è proprio il migliore compagno di viaggio per chi (magari preterintenzionalmente) può dare una scossa salutare al socialismo europeo. Ma anche in Europa ci sono più cose fra cielo e terra di quante non ne possa comprendere la rituale dialettica fra popolari e socialisti. Senza dimenticare, inoltre, che anche Schauble e la Merkel dovranno collocarsi con maggiore decisione rispetto al cleavage dell’europeismo. Potranno farlo più agevolmente se sapranno consolidare e rinnovare l’alleanza con la Spd, la cui nuova leadership ha tutti i quarti di nobiltà europeista in regola: e soprattutto se Schulz saprà fare tesoro delle sconfitte che i suoi compagni stanno accumulando nelle elezioni amministrative, specialmente quando prendono le distanze dalle riforme di Schroeder e si arroccano nella Fortezza Bastiani della sinistra tradizionale.   

E’ una lezione, del resto, che i socialisti dovranno apprendere anche nel resto d’Europa, se non vorranno continuare ad andare combattendo contro la Merkel mentre Trump, la May e Putin mettono in discussione quella società aperta che da più di mezzo secolo ha rappresentato l’ambiente ideale per garantire benessere e diritti ai ceti più deboli. Ed è una lezione che dovremo apprendere anche in Italia, invece di sprecare parole sul “Partito della nazione”, mentre c’è da costruire qui ed ora il partito dell’Europa.

 

 (*) Parlamentare socialista dal 1979 al 1994. Pubblicista, è direttore di «Mondoperaio», il mensile fondato da Pietro Nenni.    

                                                                                                                                                          

 

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