Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il Jobs act del lavoro autonomo ha finalmente un nome e un cognome: legge 22 maggio 2017, n. 81. Il primo via libera in Consiglio dei ministri risale al 28 gennaio dello scorso anno e in questi 16 mesi il testo si è arricchito del contributo di tutte le forze politiche in Parlamento, dove ho avuto il piacere di seguirlo fin dalla culla per conto del governo finché non ho lasciato Palazzo Chigi.
Quella legge parte da un assunto tanto semplice quanto da sempre lontano dai riflettori della politica: l’assunto cioè che il lavoratore autonomo non sia un lavoratore di serie B e che le partite Iva non costituiscano un universo residuale del mercato del lavoro, ma una risorsa per la crescita del Paese.
Il Jobs act del lavoro autonomo
Dopo aver tracciato in maniera più netta la suddivisione tra lavoro dipendente e autonomo con il Jobs act (art.2 comma 1 del d.lgs. 81/2015), aggredendo l’area delle finte partite Iva e delle finte collaborazioni per spingerle verso la disciplina del lavoro subordinato, ci si è potuti occupare di tutele disegnate sul vero lavoro autonomo. E lo si è fatto abbattendo un altro muro, quello tra ordinisti e non ordinisti, guardando agli autonomi nel loro complesso.
Con il Jobs act del lavoro autonomo, aumentano i diritti su maternità e malattia, attraverso l’estensione dei congedi parentali, la sospensione dei versamenti contributivi in caso di malattia grave e l’abolizione dell’obbligo di interrompere l’attività per accedere ad alcune di queste tutele (richiesta storica delle associazioni di quel mondo). Diventa strutturale l’indennità di disoccupazione per i collaboratori (DIS-COLL) e viene estesa a dottorandi e assegnisti di ricerca.
Qualcuno lamenta che l’allargamento del welfare riguarda solo i non ordinisti in gestione separata, ma questo è dovuto al fatto che le casse degli ordinisti sono autonome e la legge può intervenire direttamente solo sulle prestazioni Inps. Allo stesso tempo, però, l’articolo 6 delega il governo a intervenire per far sì che anche le casse possano allargare l’offerta di welfare allargato. Quindi, di nuovo, nessuna discriminazione tra ordinisti e non ordinisti, ma solo strumenti diversi.
E ancora: aumenta per tutti la deducibilità delle spese in formazione professionale (fino a 10.000 euro) e nei servizi di ricerca di mercato o di certificazione delle competenze (fino a 5.000 euro). E viene introdotta una deducibilità totale dei costi assicurativi contro il rischio di ritardo nei pagamenti. (Rispetto ai ritardi nei pagamenti, tra l’altro, si estendono anche agli autonomi le garanzie previste per le imprese dal d.lgs. 231/2002.) Si fa chiarezza sulle norme fiscali, allargando la deducibilità per le spese di viaggio sostenute durante la propria attività. E si sancisce la possibilità di accedere direttamente ai bandi pubblici.
Infine – parte altrettanto importante del provvedimento – il lavoratore autonomo vede rafforzata la propria posizione nel caso di clausole o condotte abusive da parte di committenti che spesso sono in posizione dominante.
Insomma: i lavoratori autonomi hanno nuovi strumenti per rafforzare la loro professionalità sul mercato e nuove protezioni nella committenza.
Gli altri interventi a favore delle partite Iva
Ma il Jobs act del lavoro autonomo è solo una delle tessere di un mosaico più ampio, composto da altri interventi a favore delle partite Iva. Si pensi al cumulo gratuito dei periodi contributivi in gestioni diverse, inserito nella Legge di bilancio 2017. Adesso, chi passa dal lavoro dipendente a quello autonomo o viceversa, non dovrà più pagare oneri impropri quando ricongiungerà i contributi per accedere alla pensione.
Si pensi al regime agevolato dei minimi fiscali, inserito nella Legge di stabilità 2016. Regime agevolato che, nei primi cinque anni, permette a chi guadagna meno di 30 mila euro all’anno di pagare un’imposta forfettaria con un’aliquota agevolata al 5%. Trascorsi i cinque anni, l’aliquota passa al 15% restando dunque agevolata rispetto al regime ordinario ma riducendo il potenziale effetto perverso della soglia, che rischia di disincentivare la crescita dei professionisti, vecchi o nuovi.
Si pensi, ancora, al taglio del cuneo contributivo per le partite Iva in gestione separata (altra richiesta storica di quel mondo), che è scesa dal 27% del 2016 (o dal 33% che per legge sarebbe scattato dal 2018) al 25% per sempre. Senza altre incertezze. Un taglio forte del cuneo contributivo che permetterà a una partita Iva con un reddito lordo, per esempio, di 24.000 euro annui di mettersi in tasca 480 euro in più di reddito disponibile nel 2017 e addirittura 1.920 euro nel 2018. Un taglio di 8 punti a regime, legato a uno sforzo importante di finanza pubblica.
Se 8 punti sembrano pochi
In una discussione su Twitter e con Oscar Giannino ai “Conti della belva” – dando un colpo irrimediabile all’audience della trasmissione di cui mi scuso con i miei ospiti 😉 – mi sono dovuto difendere dall’accusa che in verità il taglio non è stato di 8 punti, perché la differenza tra 33% e 25% comprende anche una mera “sterilizzazione” o un “mancato aumento”. Questa critica non coglie un punto fondamentale: non stiamo parlando di bilanci previsionali ma di leggi della Repubblica che, grazie al potere coercitivo dello Stato, sono a tutti gli effetti norme concrete e vincolanti. Se dicono che l’aliquota è al 33% dal prossimo 1 gennaio, quella è (infatti, l’aumento previsto è anche scattato per un mese a un certo punto del 2016 perché il governo ha aspettato troppo a cancellare l’aumento con il decreto “milleproroghe”). Non è una sterilizzazione, ma una riduzione. Non si modificano previsioni, ma leggi. E per farlo servono soldi. Come si può notare dalla tabella, si è trattato di uno sforzo importante per il bilancio pubblico, anche considerando che la platea dei destinatari conta non più di 280 mila partite Iva.
La faccio lunga (e me ne scuso con i miei cinque lettori) non per amor di cavillo, ma perché tocchiamo un punto importante su come le percezioni pubbliche o il dibattito mediatico creino incentivi perversi per i politici. Se infatti i governi in carica non pagano i costi politici di un aumento delle tasse in futuro, quelli che ereditano questi aumenti hanno davanti a sé due strade: (1) se non fanno niente, si prendono loro la colpa; (2) se li annullano, trovando le risorse necessarie, i loro sforzi non vengono riconosciuti. Un incentivo perverso, appunto, che porta a scaricare i costi sul futuro e a non assumersi la responsabilità delle scelte.
Insomma: quegli 8 punti di riduzione, percepiti in tutto o in parte, sono reali, perché come mostra la tabella il governo ha dovuto trovare milioni di euro che sono stati dirottati da altri impieghi. Casomai, una critica possibile è che sono troppi, non che sono pochi! Ma il governo in quel momento ha pensato che dare ossigeno alle partite Iva fosse una delle sue priorità.
Un’altra critica possibile è che, riducendo l’aliquota, le pensioni future saranno troppo basse. In realtà, come è spiegato qui, per via di una fiscalità diversa tra lavoro autonomo e dipendente, un’aliquota intorno al 25% garantisce tassi di sostituzione (cioè rapporti tra ultimo stipendio netto e pensione futura) molto vicini a quelli garantiti a un lavoratore dipendente da un’aliquota al 33%. Certo, non tutte le partite Iva sono uguali e magari alcune preferiscono risparmiare di più (o possono permettersi di farlo), quindi sarebbe stato utile prevedere, per esempio, un 3% di contribuzione volontaria in più per chi volesse versare più contributi in gestione separata.
Che cosa resta da fare
Bastano questi sforzi a risollevare da un giorno all’altro le sorti del lavoro autonomo in Italia? Ovviamente no. È solo un primo passo, ma nella direzione giusta. Il secondo potrà seguire il solco già tracciato. Tutte le misure del governo Renzi, infatti, stavano dentro un disegno preciso, che – intervenendo su fisco, previdenza e tutele nella committenza – ha cercato di dare risposte concrete a un settore che continua a incontrare difficoltà. Difficoltà, innanzitutto, a rimanere in un mercato come quello delle professioni, in costante e rapida trasformazione.
Che cosa resta da fare, quindi? Per esempio prevedere anche per i lavoratori autonomi con bassi redditi la possibilità di usufruire di garanzie in caso di significativi cali di attività; o rendere più certi gli incassi attraverso l’abbattimento dei tempi della giustizia civile (il disegno originale della legge prevedeva l’estensione del rito del lavoro); o ancora incrementare gli strumenti di welfare allargato sul solco del già citato articolo 6.
L’equo ribasso
Un tema da maneggiare con cura, invece, è quello del cosiddetto “equo compenso”. Non è un caso che il Jobs act del lavoro autonomo non lo preveda. Dobbiamo stare attenti a non cadere in due errori contrapposti: da una parte disegnarlo con in testa il lavoro subordinato, col rischio di far rientrare dalla finestra le finte partite Iva e le finte collaborazioni; dall’altra limitarsi a introdurre tariffe minime per qualsivoglia ordine, tema da affrontare invece in un quadro di riforma e di concorrenza nelle professioni.
Quello del lavoro autonomo è un mondo troppo eterogeneo: introdurre parametri unici e rigidi potrebbe creare distorsioni difficilmente prevedibili. Non è un caso che le stessa associazioni che rappresentano quel mondo presentino soluzioni diverse e talora in contrasto tra loro. Parliamone, comunque. Magari cominciando a parlare seriamente di come evitare assurde gare al ribasso quando il committente è il settore pubblico. Cominciamo con introdurre l’equo ribasso per i professionisti e i loro committenti.
C’è molto da discutere (e da fare). Senza snaturare un disegno che riconosce al lavoro autonomo tutele sì, ma salvaguardando la sua specificità e la sua forza.
(*) Economista, Università Bocconi, membro della Segreteria nazionale PD