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Tre mosse per evitare altri disastri

Quello del dissesto idrogeologico e cioè delle frane, delle inondazioni, delle alluvioni, degli smottamenti è una classica questione “carsica”. Emerge nelle aperture dei telegiornali, nelle prime pagine dei giornali, nelle discussioni al bar e nei dibattiti parlamentari ogni qualvolta c’è un disastro. Si immerge nel dimenticatoio non appena l’emergenza perde attualità. E così via, evento dopo evento, durante i quali si ripetono le stesse argomentazioni. Ormai si sa moltissimo sulle cause, si conoscono nei dettagli i territori a rischio, le popolazioni coinvolte non hanno alibi conoscitivi. Di più, si conosce nel dettaglio cosa bisognerebbe fare, come converrebbe agire, chi deve darsi da fare. Di anno in anno, si susseguono ricerche, analisi, documentazioni, svolte da agenzie pubbliche ma anche da soggetti privati che mappano l’enorme potenziale di danni che l’incuria e l’indecisione stanno accumulando.

Ma non diviene “questione nazionale”. Nel senso che non passa dalla gestione emergenziale a intervento sistemico, da priorità occasionale a misura strutturale. Certo, negli ultimi dieci anni, a fronte di un ripetersi sempre più frequente degli eventi disastrosi che spesso fanno contare non solo i danni materiali ma anche le perdite di vite umane, la sensibilità delle persone e delle istituzioni è cresciuta. Basti pensare al successo delle sottoscrizioni, alla mobilitazione dei volontari, al tempismo degli interventi della Protezione Civile, alla istituzione di Italiasicura. Sono anche aumentati gli stanziamenti pubblici, regionali e statali, per affrontare l’emergenza ma anche il risanamento. Quello che non dà un senso di completezza a quest’accresciuta coscienza civica è la persistente carenza di prevenzione e rapido contenimento dell’evento dannoso.

Eppure, non bisogna essere fine economista per comprendere che rimettere in sicurezza il Paese è un modo per contribuire a fare investimenti e a dare lavoro. E’ un classico settore labour intensive e per la delicatezza degli interventi, l’utilizzo di tecnologie avanzate consentirebbero il ricorso a professionalità nuove e sistemi produttivi d’avanguardia. Due caratteristiche che tutti gli studiosi considerano importanti per il futuro del Paese. Considerando poi che, per la maggior parte delle situazioni, si tratta di interventi di piccola e media dimensione, verrebbero favorite le decisioni riguardanti i livelli locali di governo delle comunità e quindi solleciterebbero crescenti coinvolgimento delle popolazioni.

Gli ostacoli maggiori non si raggrumano attorno a schieramenti politici ben delineati, come un tempo. Di qua gli ambientalisti, di là i produttivisti. Salvo qualche ambiente estremo sui due fronti, i “verdi” hanno fatto proprie le esigenze e vedute socioeconomiche e gli aziendalisti hanno introitato opzioni e valutazioni ecologiste. Piuttosto ora si confrontano gli innovatori e i conservatori su due elementi cruciali. Il primo è che nel tempo le competenze si sono moltiplicate. Una serie innumerevole di istituzioni, enti pubblici e soggetti privati intervengono nei processi decisionali riguardanti l’uso del suolo, la salvaguardia di case, cose e persone dagli eventi naturali,  la prevenzione dagli stessi.

Le resistenze ad assumersi una responsabilità collettiva, che sani o prevenga i dissesti, fa dire al Ministro dei Trasporti Delrio “per il dissesto nel 2014 abbiamo trovato 2 miliardi e mezzo di soldi stanziati e mai spesi. Idem per l’edilizia scolastica. C’è una responsabilità di tutta la filiera delle amministrazioni che vale anche per la ricostruzione del terremoto”. Ora Sicuritalia sta cercando di colmare i vuoti di coordinamento, ma senza l’attivazione di strutture tecniche permanenti al servizio degli enti locali per la definizione di progetti effettivamente cantierabili e quindi finanziabili, sarà sempre arduo che dopo la formazione del consenso si attivi prontamente l’esecutività delle opere.

Il secondo elemento ineludibile da risolvere è che – trattandosi di soldi pubblici e quindi della collettività – le gare di appalto divengono un crocevia delicato per i tempi dell’intervento di risanamento e di prevenzione. Troppe volte di queste gare si sa la data di partenza ma non quella di assegnazione. In mezzo intervengono tante incognite legate alla legittimità delle procedure o alla correttezza comportamentale di uno o più protagonisti coinvolti dalla stessa. L’intervento della magistratura è inevitabile, ma con esso la certezza dell’indeterminatezza della soluzione della vertenzialità messa in campo. L’esigenza primaria di evitare il disastro incombente o di sanarlo passa in secondo ordine. Ma perché su questa materia, le regole del Codice degli appalti non possono prevedere che la legittimità dell’appalto sia certificata ex ante dall’Anac? Un’azione preventiva che può eliminare molto contenzioso, ragionevole o strumentale, consentirebbe un iter dell’appalto più veloce e certo.

Ma, aldilà della soluzione di questi snodi, resta la necessità di coinvolgere le popolazioni interessate. Soltanto una legislazione, come quella francese, che proceduralizza la partecipazione delle persone per definire priorità, condizioni e misure per questo tipo di interventi, potrà ridurre i conflitti d’interesse, mettere le istituzioni, i partiti e i rappresentanti della società civile di fronte alle loro responsabilità, facilitare la conclusione del processo decisionale. E così rassicurare tutti che il dissesto nn incomba più o faccia nuovi danni e non si debbano ripetere sempre le stesse argomentazioni sconsolate e spesso dolorose sulle calamità colpevolmente provocate dall’uomo.    

 

      

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