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Trasformare problemi difficili in prospettive possibili

Ormai è chiaro da tempo. La partita immigrazione si gioca sostanzialmente su due piani, contemporaneamente. Quello europeo, decisivo per dare un ordine alla distribuzione negli Stati dell’Unione dei flussi di migranti in entrata dalle coste italiane e greche. C’è tuttora una certa anarchia nei comportamenti concreti dei Governi. Il dossier riguarda la certezza di ricollocare singoli e famiglie richiedenti asilo in Europa in modo equilibrato, anno dopo anno. Resterà ancora aperto per alcuni mesi come minimo, dopo l’ultimo incontro del Consiglio Europeo. Eppure la scelta che sembra stia prevalendo è quella giusta: i corridoi umanitari, plafonati Stato per Stato, inaugurati dalla Comunità di S. Egidio e Chiesa valdese. Ma bisogna passare dal mantra ai fatti, con un accordo complessivo.

Questo disegno sarà facilitato, nell’immediato, dal consolidamento degli accordi con la Libia (se l’ONU non dà una mano per quanto riguarda la gestione umanitaria dei campi profughi, tutto si complica) e per il medio e lungo periodo, dall’affinamento di un serio piano poliennale di investimenti nei Paesi dai quali hanno origine quei flussi, per ridurne la portata e per creare un asse preferenziale e durevole tra l’Europa e gli Stati africani che si affacciano sul Mediterraneo.

Le difficoltà sono note. Le forze politiche sovraniste, presenti con più o meno consistenza in quasi tutti i Paesi dell’Unione, cavalcano i malumori e le rabbie che suscita l’immigrazione poco governata. Ovunque alimentano tensioni sociali e schieramenti contrapposti. Ma proprio per questo, sia pure tra alti e bassi, lo sforzo per trasformarla da permanente problema emergenziale a convinta politica strutturale, sarà gioco forza portarlo avanti con decisione e probabilmente anche con il coinvolgimento delle formazioni politiche e degli Stati più riottosi. Infatti, in discussione è la stessa stabilità e crescita dell’integrazione europea. E le recenti elezioni in Germania ed Austria sono un campanello d’allarme preoccupante ma non disperante. E’ più facile andare avanti che rinculare. Brexit docet.

L’altro piano d’intervento è tutto interno al nostro Paese. Non basta una collaudata accoglienza. Ci vuole una convinta strategia di integrazione. Il Paese è pieno di best practices, da questo punto di vista. Nelle scuole, nei quartieri delle grandi città, nei piccoli comuni, tra le associazioni di volontariato, le attività artistiche, le comunità d’accoglienza.  Ma il veloce incremento delle presenze temporanee e non di stranieri le annebbia, le marginalizza. Il fenomeno immigratorio crea un inevitabile e spesso illegale disordine abitativo, un diffuso accattonaggio e commercio abusivo, finanche un bighellonare che talvolta prende la strada dell’aggressione alle cose e soprattutto alle persone. Il tutto genera incertezza, paura, rabbia.

La verità delle statistiche non giustifica questa evoluzione della sgradevolezza che insidierebbe la normalità della vita quotidiana. Ma il “percepito” gioca brutti scherzi alla realtà documentale. Specie se c’è chi, invece di contribuire a cercare le soluzioni più adeguate per ridurre queste situazioni, cerca di costruire sul “percepito” le proprie fortune di potere e politiche. Smascherare le strumentalizzazioni è un dovere. Sottovalutare le reazioni populiste è un errore. Quanti, invece, non drammatizzano – perché sono convinti che le migrazioni non solo sono inevitabili ma possono rappresentare un vantaggio, specie per Paesi come il nostro che è in deficit di natalità –  rischiano di porsi sulla difensiva e alla lunga malamente zittiti, se non riuscissero ad affermarsi prospettive strutturali. 

L’integrazione è la carta vincente e come si è detto, l’Italia è piena di belle e utili esperienze al riguardo. Purtroppo non fanno sistema, sono ancora troppo limitate, ma soprattutto non sono inserite in un disegno condiviso e visibile. L’integrazione ha bisogno che nel Paese la disoccupazione cali significativamente, specie quella giovanile. Importiamo forza lavoro, prevalentemente manuale, ma esportiamo competenze. Nulla di male se le une e le altre fossero temporanee. Invece, nella maggior parte, questi movimenti sono definitivi. E la gente non capisce. Se si riuscisse a dare lavoro qualificato e stabile ai giovani italiani, la bugia del “vengono a rubarci lavoro” sarebbe sconfessata dai fatti prima che dalle parole. Si deve fare di più su questo fronte. La spesa pubblica in investimenti tecnologici e in infrastrutture materiali deve accelerare i tempi di attuazione e possibilmente aumentare in termini di risorse. L’Europa, per questo verso, deve contribuire significativamente, specie ora che la politica monetaria della BCE tende a ritrarsi.

Inoltre, i sindaci devono essere messi nelle condizioni di governare sempre meglio i flussi. Almeno in tre direzioni: puntando sul terzo settore, ampliare l’offerta di sedi aggregative nel territorio, con priorità alle periferie delle medie e grandi città; disporre di risorse per realizzare, con il contributo della scuola e del volontariato laico e cattolico, una sorta di “150 ore” (di benemerita memoria tra i lavoratori) per acculturare tutti i migranti sui valori, sulle regole di convivenza e sulla lingua italiani (le esperienze non mancano, vanno diffuse e imitate); acquisire poteri e risorse per assicurare un alloggio dignitoso a chi ne fa richiesta, senza creare ghetti e situazioni di degrado. Il Governo e l’Anci, con l’articolo 16 del decreto legge 20/06/2017 n. 91 si sono messi in questa scia, ma non ancora hanno impostato un vero sistema che, al pari dell’accoglienza, delinei una tendenza strutturale e non occasionale.

 Infine, il Governo farebbe bene a predisporre un programma nazionale di lavori socialmente utili per consentire ai sindaci, ad organizzazioni come la Protezione civile, agli autorizzati a svolgere il Servizio civile di mettere al lavoro, sia pure per poche ore al giorno, tutti i migranti accolti anche in forma temporanea che siano in età lavorativa. L’esperienza fatta alla fine degli anni 90 (furono avviati al lavoro e poi stabilizzati più di 120000 giovani e lavoratori espulsi dalla crisi di quel tempo) può essere base utile per impostare una grande operazione di impegno lavorativo per decine di migliaia di immigrati. Si risponderebbe non solo ad un’esigenza di assistenza ma anche di dignità da soddisfare per chi scappa dalla guerra e dalla fame. Nello stesso tempo, sarebbe l’espressione di uno scambio accettabile tra ciò che gli italiani danno e ciò che essi sono disponibili a restituire. Soltanto un esasperato razzismo potrebbe far continuare a dire “li manteniamo a sbafo”.

L’accoglienza come l’integrazione sono un dovere civile. E nonostante tutto, non solo la Costituzione ma il comune sentire della maggior parte degli italiani non lo mette in discussione. Bisogna fare in modo che questo dovere civile non sia soltanto buonismo, ma costruzione progressiva di convivenza multiculturale e multietnica. Anche per questo è importante che in questa legislatura venga approvata la legge sullo jus soli. In fondo, se il terrorismo non ha attecchito nelle prime e seconde generazioni di ex migranti presenti in Italia, lo si deve anche alla lungimiranza di non aver costruito banlieue come a Parigi e di aver compreso che accoglienza e integrazione vanno di pari passo. Si tratta soltanto di consolidare la tendenza, sapendo che non sono disponibili soluzioni facili a problemi difficili, ma che si possono trasformare i problemi difficili in prospettive possibili.

  

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