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Far prevalere un solido spirito riformistico

Per comprendere la frantumazione del panorama politico della sinistra e delle relazioni tra le sue componenti e parti del sindacato, credo si debba partire da un ragionamento per sottrazione. Cosa manca, in quest’epoca, a quel rapporto?

Quando, da giovane impiegato della Riv Skf, ho cominciato la mia attività sindacale, esistevano ideologie ben strutturate e la lotta di classe. Quegli elementi erano un involucro che, in qualche modo, indirizzava le organizzazioni sindacali e le forze politiche che facevano riferimento al lavoro, in una direzione definita. Le scelte erano proiettate in un contesto ideologico-politico generale, che, in qualche modo, supportava la ricerca dei contenuti.

Quando parlo di lotta di classe rammento che gli anni 70 erano i tempi del conflitto di classe e la scelta sindacale aveva sempre un carattere duplice. Un dirigente sindacale era come la medaglia di cui la politica era l’altra faccia: erano due continenti autonomi che però si intrecciavano di frequente. Una struttura tutta italiana. Paese nel quale, il nostro, esisteva il sindacato unitario. E non esisteva, invece, il partito del lavoro, fondato dal sindacato – com’è, invece, nell’esperienza britannica. Tant’è che io amo molto un’espressione dei leader dell’epoca, penso a Lama e a Trentin, che consideravamo i nostri maestri: si parlava, a proposito del sindacato, come di un “soggetto politico della trasformazione”.

In secondo luogo, oltre al contesto ideologico-politico, che caratterizzava quegli anni, bisogna anche considerare il carattere del modello produttivo. Era il tempo della critica verso il modello fordista – il modello imperniato sulla catena di montaggio, come paradigma della relazione di lavoro, nel tentativo di sfuggire alla subordinazione del lavoratore alle gerarchie, alla segmentazione, tipica della produzione parcellizzata, sulla la falsariga di quanto Trentin aveva riassunto nella formula “da sfruttati a produttori”, che consisteva nella crescita e nell’emancipazione di un’autonomia nel lavoro, un’autonomia politica e sociale.

Tutto questo aveva assunto, in Italia, un carattere fortemente riformista che univa sindacato e partiti di sinistra e centrosinistra. Ed è proprio in quel 1970, in cui cominciai a lavorare, che questa spinta riformista raggiunge l’apice. Nel 1968, Giacomo Brodolini – già militante azionista e, poi, socialista e dirigente della Cgil – diviene ministro del Lavoro nel Governo guidato dal democristiano Mariano Rumor. Mentre, dall’opposizione, il Partito Comunista Italiano svolge un ruolo di forte pressione riformista. Siamo in un’Italia trasformata da Paese agricolo a grande potenza industriale al massimo dello sviluppo. L’Italia dello Stato imprenditore; l’Italia delle grandi fabbriche in cui regna, appunto, il modello fordista. Un’Italia che fa parte di un mondo occidentale, è necessario ricordarlo, in cui prevale la teoria economica Keynesiana. Nel 1969 vengono riformate le pensioni con l’adozione di quel modello tanto criticato in tempi recenti. Nel frattempo, vengono abolite le gabbie salariali. E poi, Brodolini, chiama il giuslavorista Gino Giugni a guidare la commissione che deve redigere lo Statuto dei lavoratori. Brodolini muore prematuramente e viene sostituito da Carlo Donat Cattin – leader di una delle correnti della sinistra democristiana – al ministero del Lavoro. Dal canto loro, le imprese agiscono in modo violentemente antisindacale con grandi campagne di licenziamenti. Lo Statuto vede la luce il 20 maggio 1970 – legge 300. Con l’astensione del Pci che ne denuncia alcune carenze giuridiche che lasciano, ancora, “troppe armi al padronato”. Tuttavia, questo è il quadro in cui il fronte del Lavoro ha compiuto grandi passi avanti con un’azione che ha visto muoversi in modo piuttosto coerente partiti politici di centrosinistra e di sinistra e sindacati.

Per comprendere l’oggi è necessario aver chiaro che tutti questi elementi economici, sociali e politici sono venuti, via via, a mancare. A metà degli anni 70, comincia la grande marcia del neoliberismo: Margaret Thatcher assume la leadership del Partito Conservatore britannico; nel 1979 vince le elezioni generali e diviene Primo Ministro. In un periodo di recessione, in campo economico, l’egemonia keynesiana è sostituita dall’affermazione delle teorie neoliberiste che hanno nella scuola di Chicago la massima espressione accademica dell’epoca. Nel 1980, Ronald Reagan vince le presidenziali Usa ed entra in carica il 21 gennaio 1981. L’intervento governativo in economia diviene una sorta di espressione del demonio e la deregolazione la strada maestra. Si può dire che il neoliberismo sia una versione dogmatica del liberismo stesso. L’intervento dello Stato, la regolamentazione dei mercati, la spesa pubblica sono “il male”.

L’asse politico si sposta, dunque, a destra. Al tramonto dell’era Reagan-Thatcher, sorge una nuova sinistra che ha introiettato alcuni di questi elementi. In un sistema economico in cui il capitalismo industriale e produttivo si è avviato a passo di carica verso una propensione alla finanziarizzazione, possiamo contare numerosi esempi: Blair e la sua “terza via”. La derogazione del sistema bancario operata da Bill Clinton. La liberalizzazione del mercato del lavoro realizzata dai socialdemocratici tedeschi. Ancora, per quanto riguarda il nostro Paese, l’ondata di privatizzazioni e alcuni interventi sul mercato del lavoro come il “pacchetto Treu” che introduce, su richiesta dell’Europa, il lavoro interinale. Certo, non si tratta sempre e soltanto di misure ideologiche. Alcuni degli interventi di riforma del sistema pensionistico in Italia – ad eccezione di quelli dei governi Berlusconi e della manovra Monti-Fornero – rispondono seriamente alla necessità di mantenere sostenibile il sistema di Welfare italiano di fronte alle grandi mutazioni che attraversano il mondo, dalla questione demografica all’avvento della globalizzazione che si realizza, di fatto, prima che se ne abbia piena consapevolezza.

La crisi del 2007-2008 è la conseguenza della cieca finanziarizzazione dell’economia e dei mercati. All’avvento di una stagione di diseguaglianze estreme e in assenza di un modello produttivo dalla natura univoca come quello fordista, non può corrispondere quel contesto ideologico-politico generale in cui partiti e sindacati possono “marciare” in una direzione definita come negli anni 60.

Una frantumazione irrimediabile? Io non credo. A patto di non ridurre l’azione politica e sindacale a posizioni di bandiera. Non è certo concentrando il proprio discorso pubblico su un’astratta battaglia per la reintroduzione dell’articolo 18 nella forma del 1970 o, addirittura esteso fino alle imprese con cinque dipendenti, che si combattono le disuguaglianze dell’oggi. Basta ragionare con dati di realtà per capirlo: i posti di lavoro atipici rappresentano circa un terzo dell’occupazione totale nei paesi dell’Ocse e comprendono la metà dei posti di lavoro creati dagli anni Novanta e il 60 per cento di quelli creati dopo la crisi del 2008. E sottolineo che questi dati riguardano l’insieme dei Paesi Ocse, contesto nel quale viene osservata l’Italia insieme a tutti gli altri. A che vale, dunque, l’obiettivo di reintrodurre una garanzia che copre solo una parte, non prevalente, dei posti di lavoro per combattere le disuguaglianze? Certo, il Jobs Act – che risente di echi neoliberisti con lo spostamento delle tutele dal posto di lavoro al mercato – ha bisogno di una riforma sostanziale: perché ha evidentemente mancato l’obiettivo di favorire la crescita di posti di lavoro a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato. Ma la sua abolizione tout court non corrisponde alla creazione di un nuovo, adeguato, sistema di garanzie.

Insomma: né partiti né sindacati possono cavarsela con un contrasto alle disuguaglianze fatta di brevi, facili frasi fatte pronunciate in favore di telecamera. Se sinistra e sindacati devono ritrovare un percorso comune su lavoro e welfare, con un serio intento di incidere sulla realtà, devono farlo unendo allo sguardo realistico su un Paese immerso nella corrente dei fenomeni globali, che vanno regolati, quel solido spirito riformista che guidò i nostri maestri di cinquanta anni fa.

 (*) Presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati

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