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E chi l’ha detto che dividersi non e’ utile?

È difficile spiegare le divisioni interne a sinistra e sindacato su lavoro e welfare, se non si ha chiaro quali sono le posizioni della sinistra su lavoro e welfare. Ma sono poi chiare?

Conviene cercare la risposta partendo dal senso comune. Quello, per dire, di un ragazzo di diciotto anni, prossimo al suo primo voto. A cui ho posto realmente la domanda: la risposta mi sembra possa essere una buona base di partenza: “Per la sinistra il lavoro deve assicurare un’esistenza libera e dignitosa” (ha studiato la Costituzione e mi ha citato l’articolo 46) “quindi non solo deve essere ben remunerato ma dovrebbe anche garantire una certa stabilità per guardare con tranquillità al futuro. E le esigenze di competitività, che sono sacrosante per il buon andamento dell’economia, devono perciò essere temperate per rispettare queste esigenze non meno importanti” (ha studiato anche l’articolo 41). Controprova: quale posizione ha la destra? “Mette al primo posto l’impresa e ciò che le è necessario per competere, ma deve tener conto, a parte ogni considerazione di tipo morale, del fatto che un lavoratore mortificato non dà lo stesso apporto di uno pienamente valorizzato”.

Non so quanti a sinistra si riconoscerebbero in questa descrizione. Certamente, un politologo o un giurista del lavoro potrebbero darne di più articolate, ma è difficile negare che questa colga l’essenziale e corrisponda al senso comune. Del resto, se la differenza tra destra e sinistra sul lavoro avesse altre basi ci si dovrebbe chiedere come mai l’opinione pubblica non sia in grado di coglierle. 

Prendo dunque per buona la descrizione semplificata proposta all’inizio e arrivo direttamente alla conclusione. Se il compito della sinistra si risolve nel raggiungere il compromesso meno sfavorevole, per i lavoratori, con le leggi del mercato, e se i suoi litigi interni vertono su questo, la sinistra si comporta proprio come i proverbiali polli di Renzo. Una concorrenza su come limitare i danni di un predominio (del mercato, dei profitti e delle rendite) che non riesce a scalfire.

Gli esempi sono davanti ai nostri occhi e si potrebbero elencare per pagine e pagine. Fermiamoci ai più noti, partendo dalla vexata quaestio dell’articolo 18. Se una parte si convince di dover concedere alle imprese la libertà di licenziare ad nutum, l’altra non nega che si debba allentare il vincolo ma sostiene che l’avrebbe piuttosto trasformato in un “articolo 17 e 1/2” (le modifiche già introdotte dalla Fornero evidentemente erano un 17 e 3/4). O quella, non meno vexata, dei voucher: a chi ha varato norme che li hanno ampiamente liberalizzati e, una volta aboliti per la minaccia di un referendum, li ha ripristinati per una casistica appena più limitata, l’altra non contesta l’istituto (introdotto dalla destra nel suo periodo più “aggressivo”) ma la sua estensione eccessiva.

Lo schema non cambia nel campo del welfare. Se una parte apre la porta a un pilastro di tipo mutualistico nel servizio sanitario pubblico, l’altra non contesta la violazione del principio universalistico, ma che sia stato incentivato con fondi pubblici. Se una parte opta per mettere sullo stesso piano agenzie pubbliche e private di intermediazione di manodopera l’altra non contesta la scelta in sé ma il fatto che nella sua attuazione concreta si lasci campo libero al caporalato. O, viceversa, se una parte insiste perché si conceda l’indennità di disoccupazione anche ad alcune tipologie di lavoratori oggi scoperte perché non tenute al versamento del relativo contributo, non contesta però il perpetuarsi dell’esclusione dei giovani che cercano lavoro per la prima volta.

Su queste differenze si fanno manifestazioni dei sindacati (che il grande pubblico ascrive nel loro insieme alla sinistra, giusto o sbagliato che sia) contro governi che si dichiarano di (centro)-sinistra (giusto o sbagliato che sia). Si divide il fronte sindacale tra chi sigla accordi e chi li contesta. Si divide il fronte politico di sinistra tra chi concede e chi avrebbe concesso qualcosa in meno.

Sia chiaro. Non sto affermando che siano divisioni fittizie. Non è un gioco delle parti, i dissidi sono reali, tanto da dar luogo a schieramenti sia nelle urne che nelle istituzioni che nelle piazze. Sostengo due tesi diverse. A un livello più immediato, sostengo che a questi dissidi l’elettorato assiste con poca passione e poca partecipazione non cogliendo differenze rilevanti (se non negli sporadici casi in cui la differenza tra l’una e l’altra posizione viene a riguardare il proprio caso specifico). Ma, a un livello che considero più denso di sostanza politica, sostengo che (vedi il riferimento ai polli di Renzo) né l’una né l’altra delle posizioni in conflitto ha l’ambizione di ergere un argine o addirittura di invertire la tendenza in atto all’impoverimento e alla svalorizzazione del lavoro. Quando è proprio questa la causa principale del fenomeno più generale di crescita delle disuguaglianze, in quanto sospinge masse crescenti di lavoratori salariati o comunque “economicamente dipendenti” (sia pure in posizioni formalmente autonome) nell’area della privazione di diritti fondamentali e di negazione di condizioni di vita degne ed adeguate al livello di sviluppo produttivo della società.

È una affermazione drastica, ne sono consapevole; ma si tenga presente che sta prendendo piede in settori sempre più larghi della sinistra nel mondo fino a diventarne, via via, la cifra distintiva, in sintonia con la missione che ha posto al centro del suo apostolato papa Francesco. Per chi ama relegare ogni critica radicale nell’angolino della marginalità politica, vorrei suggerire una riflessione un po’ più attenta e meno provinciale, prendendo atto che si tratta di qualcosa che appare largamente radicato, oltre che radicale, e in espansione, diversamente dalle versioni che abbiamo conosciuto, di una sinistra che definirei comunque idealistica più che ideologica, obiettivamente incapace di proporsi in modo credibile al di fuori di ambiti numericamente minoritari.

Non solo questa nuova sinistra è in crescita. Ma parallelamente assistiamo a una progressiva perdita di consenso dello schieramento socialdemocratico. Con questa definizione riunisco in una stessa espressione un insieme di realtà di sinistra che si sono affermate nella seconda metà dello scorso secolo in forme molteplici, etichettabili in svariati altri modi ma accomunate dal ruolo protagonista che hanno svolto nel compromesso tra stato e mercato. E dall’aver messo al centro la costruzione di un sistema di welfare generoso e in buona parte universalistico. Quello che per decenni ha consentito l’estensione di un livello di benessere (e di diritti) a larghe masse di popolazione che ne erano escluse (prevalentemente nell’occidente sviluppato).

Quel compromesso è saltato. Sin dagli anni Ottanta è stato messo in discussione da una destra aggressiva nei paesi anglosassoni. Ma è dopo la caduta del Muro che i fautori del primato del mercato e dello stato minimo (ossia del liberismo) hanno colto l’occasione – di un passaggio storico interpretato come “fine della storia”, del conflitto tra destra e sinistra – per dichiararlo estinto.

Sulle strategie da adottare per rispondere a questa offensiva, la sinistra nel mondo si è divisa tra chi ritiene quel compromesso ancora praticabile e chi sostiene di dover cambiare paradigma. Le considerazioni svolte fin qui portano però a concludere che i conflitti interni alla sinistra italiana non rispondono a questa divisione di fondo, che ha al centro proprio le questioni del lavoro e del welfare. E arriverei a dire che se non fosse così, se non restassero nei confini di un compromesso non più in equilibrio e andassero alla radice delle contraddizioni che hanno reso vani principi e obiettivi attorno a cui si era raccolta non solo la sinistra ma l’arco di forze politiche che si sono riconosciute dopo la Resistenza nel lavoro dei padri costituenti, non sarebbero neanche da demonizzare.

Non vorrei lasciare che il discorso a questo riguardo si fermasse alle enunciazioni generali. Perché a sinistra ci si dovrebbe fermare un attimo a riflettere sulle ragioni che hanno portato a considerare le parti più solenni della nostra Costituzione (o della Carta dei Diritti dell’Unione Europea) come belle parole per disegnare un ideale che con la politica concreta ha ben poco da spartire.

Qualche esempio dunque, anche qui. Un lavoro stabile per un’esistenza dignitosa non è più un valore, viene irriso come ingenua utopia o condannato come ostacolo al progresso. L’attenzione si concentra sulla tutela reale dai licenziamenti, cartina di tornasole degli schieramenti, ma è tutto l’impianto del diritto del lavoro che è stato stravolto: l’impresa deve essere liberata da questi vincoli perché l solo modo per essere competitivi nel mondo globalizzato è abbassare le condizioni del lavoro, anche al di sotto dei limiti della sussistenza e del rispetto della dignità della persona. Il paradosso è che si attribuisce quel poco di ripresa economica dell’ultimo periodo ai provvedimenti diretti alla compressione di retribuzioni e diritti del lavoro, quando i settori che alimentano quella ripresa sono proprio quelli che hanno scelto la via opposta puntando sulla valorizzazione del lavoro senza fare ricorso né alla droga degli incentivi né alla tentazione dell’umiliazione della forza lavoro.

Pensiamo alle pensioni, di cui si discute molto e ci si divide su qualche migliaio di posizioni da salvare da un allungamento di tre mesi dell’età pensionabile. Tema importante perché si tratta di persone che vedono cambiare la loro prospettiva di vita per i prossimi anni. Ma nessuno si azzarda a mettere in discussione un sistema odioso e iniquo come quello che è stato introdotto con l’istituzione della “Gestione separata” dell’INPS. Una riserva indiana in cui vengono confinati i gran numero (centinaia di migliaia) lavoratori che versano contributi a cui non corrisponderà nemmeno in un futuro lontano una prestazione pensionistica. Perché il loro sacrificio è necessario per l’equilibrio di un sistema pensionistico: come se iniquità e discriminazione non fossero termini in opposizione all’equilibrio.

Infine, restando in tema di equilibrio, pensiamo alla disoccupazione. Con uno slittamento progressivo di cui si è persa la consapevolezza, a sinistra è stato archiviato, senza neppure un degno funerale, l’obiettivo della piena occupazione. Ora si parla con naturalezza di NAIRU, cioè di un tasso di disoccupazione che non sia così basso da rischiare di innescare un processo inflattivo. La BCE si preoccupa di arrestare la deflazione in corso e favorire una (moderata) ripresa di inflazione ma neanche questo paradosso è bastato a accantonare una teoria che ha trasformato una notazione statistica in un obiettivo sociale che assume come ideale una condizione reale degradante, come quella di chi non può lavorare pur aspirando a farlo (non si dimentichi che il disoccupato è definibile come tale solo se cerca attivamente un lavoro, altrimenti è “soltanto” un inattivo).

Eppure tutto il sistema di welfare per indennizzare la condizione di disoccupazione (ne ho accennato sopra) si basa sul presupposto che sia una colpa. Non di un sistema economico che non sa che farsene di una persona che aspirerebbe a portare il suo contributo alla ricchezza generale, ma di quella persona. Se non trova un lavoro, è quella persona il problema. È un “mismatch”, che si risolve intervenendo per modificare l’offerta di lavoro, per adeguarla alla domanda: perché questa (cioè l’impresa) è intoccabile: guai! Lo stato investe risorse ingenti per riqualificare il lavoro (sacrosanto, figuriamoci), nonché per controllare e in caso sanzionare eventuali casi di scarsa intraprendenza di chi è alla ricerca. Ma di condizionare la domanda, indirizzare il mercato, sanzionare comportamenti opportunistici, non si deve parlare: c’è una teoria economica – priva di qualsiasi base scientifica ma adottata come un dogma – che spiega che in questo modo si danneggia l’economia. Che “ci si allontana dall’equilibrio ottimale”.

Ben vengano dunque le divisioni. Se aiutano a trovare la strada e ad essere finalmente compresi da coloro nel cui interesse – a quanto si sostiene – ci si divide.

Se ci si misura su proposte come quella di abbattere del tutto la giungla delle norme che hanno vanificato le tutele minime, retributive e organizzative, che permettono di salvaguardare la dignità del lavoro. Di realizzare un sistema pensionistico davvero universalistico che non discrimini in basso, in peggio, e in alto, in meglio, partendo dall’abolire una Gestione che fin nel nome dichiara la separazione. Di assicurare un reddito di base a tutti coloro che non lo raggiungono in una società in cui una quota di disoccupazione è ufficialmente dichiarata come strutturale e ineliminabile.

Insomma, se ci si sottrae al monopolio concettuale del “non c’è alcuna alternativa”.  

 (*) Economista del lavoro

 

 

 

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