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E’ stata avviata la piena cittadinanza della politica industriale

Quale Politica industriale nella globalizzazione

Con la lunga stagione di apertura dei mercati mondiali iniziata col 1990 e la caduta del muro di Berlino tutto il sistema produttivo e industriale mondiale ha iniziato un percorso di profonda trasformazione strutturale, che ha toccato non solo la divisione internazionale del lavoro, ma soprattutto l’architettura di produzione e di vendita delle singole imprese. 

La vera novità storica che stiamo vivendo è infatti una nuova architettura del ciclo produttivo dei settori e delle singole imprese che non ha precedenti nella storia. Infatti è noto che la divisione del lavoro tra paesi, territori e nazioni è un fenomeno molto antico, nel senso che sin dall’antichità i territori si sono specializzati nella produzione di particolari manufatti, che poi venivano esportati e venduti in altri territori ma quando erano già pronti per l’uso. Invece, la comparsa di imprese che competono con successo attraverso un sistema produttivo, che riesce a cambiare fabbriche, officine, reti di subfornitura, magazzini e punti vendita situati in diversi continenti del mondo, è una novità tipica di questa epoca, resa possibile sia dai trasporti più efficienti e dai voli intercontinentali, sia da internet e dalla semplicità di scambio di informazioni tecniche e commerciali nonché da tutte le altre tecnologie. 

Siamo dunque nell’epoca dei network dal valore globale cioè di imprese che combinano reti di fornitura di componenti, poli produttivi e sistemi di vendita a scala mondiale. Questi network non riguardano solo la grande impresa industriale, ma anche e soprattutto le piccole aziende, i distretti e le filiere, tipiche del sistema italiano, oltre alle imprese di servizio e di trasporto. 

Infatti sono soprattutto le piccole imprese che, se non si innovano e non si agganciano a un network globale, rischiano di restare senza mercato e di scomparire.

Di conseguenza, i temi centrali di una politica industriale nei paesi sviluppati nell’epoca della globalizzazione sono assai diversi da quelli del ‘900 a scala nazionale. A me paiono essere i seguenti:

  • favorire il passaggio da sistemi di imprese con base prevalentemente nazionale a network del valore globale. Bisogna operare sia a supporto delle manovre di aggregazione proprietaria, di acquisizione e di fusione necessarie, sia a favore della costruzione di reti di vendita in altri continenti, sia con l’innovazione tecnico-organizzativa e con la formazione di Imprenditori e Manager preparati ai nuovi compiti
  • controllare e indirizzare i processi di delocalizzazione e di vendita, acquisizione e fusione. La delocalizzazione e la vendita delle imprese nazionali non sono un bene o un male in sé stesso, ma dipendono dai contesti e dai modi con cui possono favorire o deprimere lo sviluppo del nostro paese. In Italia, le delocalizzazioni  attuate dall’industria manifatturiera nei decenni scorsi in modo spontaneo sono state per lo più di tipo opportunistico e con ottica di breve periodo. Diversamente dalla Germania e dal Giappone dove la delocalizzazione e i processi di fusione, sono state perseguite con finalità di sviluppo di lungo periodo.
  • favorire l’innovazione tecnologica e soprattutto organizzativa nei sistemi di gestione delle risorse umane e finalizzare all’innovazione industriale e alla produttività la ricerca scientifica. Sulla importanza della innovazione tecnologica non bisogna spendere parole, perché è a tutti nota. Meno nota è invece l’importanza della innovazione organizzativa e della gestione delle risorse umane per la crescita di produttività. Essa è una precondizione per l’uso efficace delle nuove tecnologie digitali e di internet. Infatti organizzazioni tradizionali, ad alta burocrazia e ad alta gerarchia con una pletora di capi e capetti non sono in grado di utilizzare le nuove tecnologie e neanche di applicarle.

 

2. La non politica industriale in Italia nel ventennio 1994-2014

Nessuno di questi tre temi della moderna politica industriale dell’epoca della globalizzazione è stata affrontata organicamente dai governi italiani nel ventennio 1994-2014 in modo adeguato e con un’ottica di lungo periodo. Solo i governi dell’Ulivo tra il 1996 e il 2000 hanno dato un indirizzo e un supporto per un adeguato risanamento e innovazione di alcune grandi imprese pubbliche, in particolare ENI, ENEL, Ferrovie, Poste italiane e Finmeccanica favorendo la loro trasformazione in moderne imprese globali con un management innovatore. Ne vediamo oggi i risultati positivi. Gli altri governi si sono completamente disinteressati di questi argomenti e hanno lasciato libero spazio alle tendenze spontanee del mercato con i risultati disastrosi che sono all’origine della crisi attuale e che ci condannano a una stagnazione di lungo periodo. 

Inoltre, le debolezze strutturali del sistema Italia (inefficienza P.A., lentezza giustizia civile, debito pubblico elevatissimo, evasione fiscale etc.) si sono sommate alla mancanza di una visione di politica industriale e alla crisi delle famiglie imprenditoriali più importanti.  La somma di tutti questi fattori è all’origine della bassa crescita di produttività negli scorsi decenni e della difficoltà di risposta alla crisi finanziaria 2008-15 da parte delle imprese italiane. Pertanto il sistema produttivo italiano, che già era in difficoltà ad adeguarsi alla globalizzazione nel decennio ‘98-2008, è stato molto colpito dalla crisi finanziaria, come accade agli tsunami dopo i terremoti, con fallimenti a catena, collasso di interi settori e difficoltà complessiva a uscire dalla crisi.  L’industria italiana è allora diventata terra di conquista dei raider stranieri e dei predatori di imprese: molti di essi hanno fatto razzia dei marchi italiani più prestigiosi e della loro capacità manifatturiera accumulata nei decenni scorsi. Centinaia di imprese con notevoli capacità industriali, dai giocattoli alla siderurgia agli alimentari, sono passate sotto il controllo di finanziarie estere o gruppi stranieri con grave danno per il nostro futuro. 

Va detto che l’incapacità di sviluppare una visione del futuro dell’industria e di proporre una politica industriale adeguata, ha riguardato anche l’opposizione di centro sinistra in Parlamento in quel periodo e gli stessi sindacati, che si sono attardati per decenni, sulla richiesta di concertazione col Governo delle politiche fiscali, sociali ed economiche, tralasciando le politiche industriali e ignorando i temi detti sopra.

 

3. Primi esperimenti di politica industriale dal 2014

Finalmente con la legislatura che si chiude si può dire che sia iniziata una prima esperienza di politica industriale organica e adeguata ai tempi seppure ancora debole incompleta, a mio avviso. Mi sembra che possa essere riassunta in quattro politiche principali:

  • Incentivi alla produttività aziendale basati sui nuovi premi di risultato e sul welfare aziendale.
    L’aumento della produttività del sistema azienda, basato su uno sforzo collettivo dei lavoratori e dei tecnici è al centro delle nuove normative sui premi di risultato. Le nuove normative hanno il merito di incentivare il superamento delle pratiche opportuniste spesso presenti negli accordi aziendali degli anni precedenti. La normativa richiede una definizione più rigorosa degli indicatori di risultato, un miglioramento reale  rispetto all’anno precedente e un maggior coinvolgimento dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali.
    Nella Legge finanziaria 2017 la partecipazione paritetica dei lavoratori al miglioramento continuo è ancora più incentivata.
    Anche la modifica della legge fiscale a favore di un welfare aziendale negoziato con i sindacati è da considerare un incentivo per le imprese ad aumentare il grado di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori all’innovazione e al miglioramento della produttività. Il buon successo di questi provvedimenti è testimoniato dal fatto che sono stati depositati pi di 25.000 accordi, di cui 2.000 prevedono forme di partecipazione diretta.
  • Incentivi alla innovazione tecnologica con il Piano Industriale 4.0.
    Il Piano Industriale 4.0 lanciato dal Ministro Calenda per il rinnovamento tecnologico e l’introduzione delle tecnologie digitali nelle imprese è indubbiamente il provvedimento più importante e significativo di politica industriale. Dai dati disponibili sembra che esso abbia effettivamente stimolato sia un ampio rinnovo dei macchinari nel sistema industriale italiano e sia anche l’introduzione delle nuove tecnologie digitali, anche se forse in misura minore rispetto all’adeguamento dei macchinari.
    Ma soprattutto il Piano Industria 4.0, ha avuto a mio avviso un effetto positivo sul piano della cultura di impresa e dei manager, producendo una sorta di effetto “sveglia” sul sistema industriale e un benefico shock per uscire dall’attendismo del periodo di crisi.
  • Sostegno ai marchi e più controllo sulle operazioni di fusione e acquisizione.
    Su questi temi, che sono molto complessi per le implicazioni con l’Europa e i trattati internazionali, il governo ha finalmente iniziato a muoversi con un po’ più di attenzione e di determinazione, soprattutto i ministeri dello sviluppo economico e delle politiche agricole.
  • Sviluppo delle Infrastrutture strategiche, in particolare telecomunicazioni e Banda Larga, Energia, Ferrovie ad Alta velocità.
    Anche su questi punti il governo, in parte proseguendo piani e linee di lavoro precedenti, ha accelerato e completato o aggiornato i piani di sviluppo finalizzandoli meglio al miglioramento del sistema produttivo.

 

4. Di che cosa c’è ancora bisogno

Le linee di politica industriale, attuate negli ultimi anni, sono certamente importanti e utili al nostro sistema ma devono essere arricchite e completate per consentirci di uscire dalla crisi. A mio avviso i punti e i gap più importanti sono tre.

  • Sostenere maggiormente il passaggio delle imprese ai network globali.
    Oggi si valuta che solo il 20-30% del sistema sia entrato in questa dimensione (si tratta delle imprese che “vanno bene” e che tirano l’economia). Il passaggio dalla architettura tradizionale ai network globali va sostenuto con più forza attraverso strumenti e tecniche appositamente pensate per le specificità italiane, in particolare per i distretti e le filiere. Ad esempio, bisogna favorire la crescita dimensionale e l’aggregazione intorno a poli trainanti, organizzare meglio e a scala più ampia la componentistica e le forniture specialistiche, i servizi knowledge  intensive, le reti di vendita nei paesi emergenti.  Per le grandi imprese e per le crisi aziendali complesse, bisogna dotarsi di strumento ad hoc, che favoriscano un rilancio basato sull’innovazione invece che sulla Cassa Integrazione di più anni.
  • Lanciare un piano nazionale per l’innovazione organizzativa, la partecipazione e le competenze delle risorse umane.
    Le nuove tecnologie, acquisite con gli incentivi del Piano Industria 4.0, richiedono di essere usate al meglio da nuove forme organizzative, basate più sul lavoro in team che sulla gerarchia, e da nuovi lavoratori dotati di più competenze tecniche e gestionali.  Ad oggi il Piano Lavoro 4.0 è stato solo annunciato. Oltre che di formazione sulle tecnologie digitali vi è a mio avviso necessità di svecchiare la gestione delle imprese, soprattutto medie e piccole, con un vero e proprio Piano di Innovazione Organizzativa e di Partecipazione dei Lavoratori.  Esso deve essere in grado di indirizzare anche gli investimenti sostenuti dai Fondi Europei regionali e la formazione dei Fondi Interprofessionali.
  • Riorientare il sistema scolastico, Università, la Ricerca e la formazione continua 

Il Piano Industria 4.0 ha puntato lodevolmente sugli Istituti Tecnici superiori, stanziando risorse sufficienti.

Ma tutto il nostro sistema formativo (Scuola Media Superore, Università, formazione professionale e continua) soffre di astrattezza, di separazione dal mondo reale del lavoro, di burocratismo, di difficoltà a preparare alla vita e alla professione. Invece le competenze essenziali oggi nascono proprio dalla collaborazione tra scuola e lavoro, tra formatori e società. Una politica di riorientamento dell’intero sistema formativo è certamente molto ardua e difficile, dato il contesto frammentato e corporativo, ma è probabilmente quella più importante e decisiva sul lungo periodo. Ci vuole non solo forza e decisione politica ma anche visione e competenze specifiche. 

 

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