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Finora ritirata strategica, d’ora in poi strategie più audaci

Jobs act e agevolazioni per i neo assunti sono stati i due provvedimenti principali del governo uscente in materia di lavoro. Assieme all’avvio delle politiche attive per il lavoro che restano però ancora troppo deboli. La strategia complessiva appare simile ad una ritirata strategica. Di fronte alla concorrenza di paesi a basso costo del lavoro bisogna flessibilizzare il nostro ed inevitabilmente ridurre tutele e garanzie per poter restare nell’agone competitivo globale. La ritirata strategica è in ripiegamento. Vuol dire qualcosa che è necessario fare per sopravvivere ma che non rappresenta il massimo che avremmo voluto.

Come ho infatti scritto di recente su Avvenire “Sul fronte del lavoro resta, però, un problema di fondo irrisolto e le forze politiche, che pure cominciano a mettere in campo proposte più articolate ancora si contrappongono prevalentemente sul tradizionale asse di maggiori o minori tutele del lavoro a livello nazionale e, così, sembrano quei protagonisti del film di Nanni Moretti che vanno a “cercare l’alba” nella direzione sbagliata.”

A mio avviso è possibile fare qualcosa di meglio rispetto alla ritirata strategica nel modo che spiego in quanto segue.

Alla malattia del lavoro che non c’è, malattia che persiste nonostante la graduale ripresa del Pil e i segnali positivi evidenziati dall’Istat, ci giochiamo il futuro del nostro Paese e la stabilità del sistema politico. La piaga va ben oltre il pur elevato tasso di disoccupazione (elevatissimo nel Mezzogiorno e tra i giovani) e si estende in una contabilità riveduta e corretta agli scoraggiati che non cercano lavoro e agli involuntary part timers, ovvero a coloro che lavorano saltuariamente e vanno a ingrossare le file dei working poor (una categoria, inedita in passato, di persone che pur avendo formalmente un’occupazione non superano la soglia di povertà). La ferita è profonda e fa così male da produrre narrative semplicistiche e distorte sulla sua possibile soluzione.
L’opinione pubblica è alla ricerca di facili capri espiatori sperando di risolvere in un colpo solo la questione e gli untori del ventunesimo secolo sono a turno i migranti o l’euro. Difficile far capire che siamo alle prese con un problema molto più complesso generato dalla competizione globale con il lavoro a basso costo (da noi o in altri Paesi del mondo) e dall’automazione che “clessidrizzano” il mercato del lavoro assottigliando la classe media a scapito di lavori “poco qualificati” (i nuovi fattorini del digitale, i braccianti agricoli sfruttati, tutti coloro che si occupano lodevolmente di servizi alla persona) e della fascia alta delle competenze creative.

Non esiste una risposta unica, ma una serie articolata di interventi necessari. Il problema della disoccupazione è fiscale e non tecnologico. Non siamo condannati alla scarsità di lavoro perché il progresso tecnologico aumenta la ricchezza globale (attorno al 3% l’anno) e se quella ricchezza viene opportunamente tassata e redistribuita produce domanda diffusa che genera nuovi lavori. La questione della lotta all’elusione fiscale globale diventa fondamentale per arrivare a un “pagare meno pagare tutti”, soprattutto all’interno dell’Unione Europea dove si domanda rigore del bilancio e ci si fa concorrenza al ribasso attraverso paradisi fiscali interni. È inoltre possibile mantenere una traiettoria di riduzione del debito (in calo dell’1% senza interventi) e giocare qualche risorsa in più sul fronte delle politiche fiscali per favorire la ripresa degli investimenti.
Con il progetto Cercatori di LavOro che portò, a fine ottobre, alla Settimana Sociale dei cattolici di Cagliari, abbiamo incontrato tanti cittadini nei territori e le migliori pratiche in materia di lavoro. Ne è nato sinora un affresco di più di 400 realtà che ci insegna moltissimo sulle vie possibili per curare la malattia del lavoro in Italia. 

Il nostro Paese ha due grandi frecce al proprio arco e un punto debole. La prima freccia è quella di un settore manifatturiero che ci pone al sesto posto mondiale per l’export e che, nella “fuga verso la qualità” con investimenti sulle nuove tecnologie e con politiche di internazionalizzazione, è ben attrezzato per la sfida della competitività globale e crea lavoro qualificato. La seconda freccia è la nostra leadership mondiale nella ricchezza artistica, culturale, di biodiversità di ambienti naturali che genera un’incredibile varietà di eccellenze enogastronomiche. Con il ministero dei Beni Culturali che sta diventando progressivamente uno dei dicasteri economici più importanti del Paese. Il punto debole è la scarsa rappresentazione degli interessi delle nostre piccole imprese che rappresentano la stragrande maggioranza del tessuto produttivo. L’errore storico, anche recente, è stato quello di trascurare i problemi di questo mondo, un errore politico oltre che economico visto che parliamo di una quota assai significativa di lavoratori ed elettori.

Il mondo dei piccoli (che non necessariamente vuole restare tale, ma fa fatica a crescere) soffre per i tempi della giustizia civile, per una burocrazia soffocante, per i limiti del sistema Paese in termini di costi dell’energia e di connessione con la banda larga e soprattutto per l’accesso alle fonti di finanziamento esterne (prestiti bancari e capitale di rischio). È assoluto dovere e interesse della classe politica concentrarsi sulla soluzione di questi problemi e sulla valorizzazione dei nostri punti di forza per capovolgere il sentimento anti-politico e sopravvivere alla rabbiosa sfiducia di tanta parte della nostra gente. Con la Settimana di Cagliari, in forza delle esperienze e di quanto si è imparato sui territori tra chi in diverso modo fa impresa e lavora, la Chiesa italiana intende offrire un contributo programmatico e di mobilitazione della società civile che può aiutare a costruire assieme le soluzioni migliori per il lavoro e per il nostro futuro.

Uno dei problemi principali delle difficoltà della sinistra oggi è quello di riuscire paradossalmente meno della destra a rispondere al disagio di fasce molto ampie della popolazione che hanno perso terreno nella doppia sfida della concorrenza con il lavoro a basso costo e la nuova rivoluzione industriale nell’economia globale. Questo a mio avviso per aver scelto due vie entrambe sbagliate: ripiegarsi acriticamente su una visione turbocapitalista o, al suo opposto, usare i vecchi strumenti del 900 ormai obsoleti per cercare di ripristinare qualità e dignità del lavoro. Questa seconda via risente principalmente dell’errore nel cogliere le interdipendenze che esistono in economie globalmente integrate. Due esempi.

Il primo. Nel 900 lo sciopero era lo strumento principale per far valere il potere contrattuale del lavoro ed ottenere una redistribuzione del valore creato meno sbilanciata verso il capitale. Oggi lo sciopero in un’impresa privata che può scegliere dove produrre su scala globale rischia di essere paradossalmente controproducente perché aumenta la tentazione di quest’ultima a scegliere di produrre in un paese dove costo e conflittualità del lavoro è inferiore.

Il secondo. Nel 900 uno Stato che voleva difendere il lavoro non aveva altro che promulgare delle leggi che promuovessero i diritti dei lavoratori e sanzionassero comportamenti lesivi di tali diritti. Oggi uno Stato che decidesse di difendere il lavoro creando per esempio una legge che stabilisce un salario minimo a 2000 euro al mese, finirebbe paradossalmente per ridurre la capacità competitiva di creazione di valore sul suo territorio e vedrebbe sparire dal proprio territorio le imprese con conseguente aumento della disoccupazione.

Gli strumenti per difendere il lavoro oggi sono altri. Quelli a prova di interdipendenza globale sono tutti dal lato della domanda, non dell’offerta. Come Governo posso (e devo) ad esempio decidere di “votare col portafoglio” nelle decisioni di appalto stabilendo requisiti minimi di dignità del lavoro e tutela ambientale. In questo modo non produco nessuna fuga ma favorisco al contrario la vincita dell’appalto per le aziende che danno dignità del lavoro, da qualunque paese provengano. Lo strumento della “green o social consumption tax” è un altro strumento fondamentale. Per capirci meglio pensiamo ad un produttore agricolo italiano che rispetta tutte le regole del paese e si trova a competere con prodotti agricoli provenienti da altri paesi del mondo che quelle regole non le rispettano. Una nuova legge in Italia che alza le tutele aumenta ancora più lo squilibrio competitivo rischiando di metterlo di fronte ad una tragica alternativa, rispettare le nuove regole rischiando di fallire o puntare sul nero e sullo sfruttamento nel nostro paese. E’ evidente che la risposta giusta sarebbe quella di alzare di 5-10% l’Iva sui consumi per prodotti provenienti da altre parti del mondo che non rispettano i nostri standard e le nostre tutele. Facendo così il bene dei nostri produttori, dei nostri lavoratori ma anche di quelli che lavorano nelle aziende concorrenti in altri paesi del mondo. “Protezionismo etico”? Sì se vogliamo provocare e comunicare meglio l’idea. In realtà difesa della dignità della persona ovunque essa sia e costruzione di un’economia al servizio della persona e non viceversa.

In conclusione, dunque la ritirata strategica è opportuna anche se non rappresenta il migliore dei mondi possibili. E’ però possibile avviare strategie più audaci per rimettere al centro la dignità del lavoro nel sistema economico globale restando al centro della sfera competitiva lavorando sul triplice fronte degli stili di consumo dei cittadini, delle regole per gli appalti pubblici e della fiscalità sui consumi.

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