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Il lavoro nella legislatura: bilancio e proposte

Misure  europee: non tornare indietro

Un bilancio non propagandistico di questa legislatura va visto in rapporto ai problemi aperti e che dovevano essere risolti. Questo è il metodo da seguire anche per  i vari problemi dell’occupazione: la disciplina dei contratti di lavoro, le politiche del mercato del lavoro, la previdenza, le relazioni industriali.

Su alcuni di questi capitoli  la legislatura ora conclusa ha messo a punto linee di riforma da tempo indicate dall’Europa e in parte avviate dal centro sinistra fin dal primo governo Prodi.

Mi riferisco alla introduzione di misure di flessibilità regolata nei rapporti e  nel mercato del lavoro. Tali misure sono state diverse, ma rientrano tutte nel mainstream europeo: dagli spazi riconosciuti alla mobilità professionale dal nuovo articolo 13 dello statuto dei lavoratori, al superamento del requisito della causalità nei contatti di lavoro a termine, alla modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che era una vera anomalia nel quadro normativo europeo. 

Sono europei  anche gli interventi di riregolazione restrittiva delle  collaborazioni coordinate e continuative, che hanno portato a ridurne il numero, che era diventato esorbitante rispetto alla media europea e che mascherava rapporti di lavoro sottotutelati e sottopagati.

Tornare indietro sulle politiche  della flessibilità regolata porterebbe a ingessare ancora il nostro mercato del lavoro, in controtendenza con le scelte di tutti i paesi e non servirebbe a dare risposte realistiche  ai problemi del  lavoro del futuro.

 

  1. Correzioni e integrazioni

Si tratta invece di andare avanti, correggendo alcune norme sulla  base dell’esperienza matura e migliorandone altre. Ad es. si possono trovare modi più efficaci per contrastare l’abuso dei contratti a termine non solo con vincoli alla loro reiterazione ma soprattutto rendendoli meno convenienti dei contratti a tempo indeterminato. Nonostante le modifiche recenti non è ancora così; e la differenza di costo incentiva indebitamente l’uso dei contratti a termine anche in sostituzione di lavori durevoli.

Le sanzioni per i licenziamenti ingiustificati, individuali e soprattutto collettivi, vanno ricalibrate  per renderle più dissuasive dagli abusi, anche qui in linea con le  prassi europee. 

La mobilità professionale è utile se ben governata. Piuttosto che limitarla per legge è bene rafforzare il potere dei lavoratori e delle loro rappresentanze di controllarne l’utilizzo in azienda. Questa oltretutto è un’esigenza che riguarda altri aspetti della  gestione aziendale, in particolare riguardanti l’organizzazione del lavoro.

La precarietà va combattuta su vari fronti, contrastando gli  abusi della flessibilità e anzitutto promuovendo una crescita sostenibile e ricca di occupazione.

 

  1. Il salario minimo  legale e  la lotta alla povertà

Ma per contrastare gli effetti negativi del lavoro precario sul reddito dei lavoratori uno strumento essenziale è il salario minimo legale. Le riserve dei sindacati, che hanno bloccato la decisione  del governo di introdurlo, vanno superate,  perché il salario minimo tutelerebbe gruppi di lavoratori  di fatto non raggiunti dalla contrattazione collettiva. L’esperienza di altri paesi smentisce  che i minimi salariali  ostacolino le dinamiche contrattuali, beninteso oltre il minimo. 

Il rischio di povertà per i lavoratori e il dumping possono essere fronteggiati con questa garanzia salariale, oltre che con la creazione di lavori di qualità.

Questa legislatura ha opportunamente configurato il cd. REI per  farlo diventare una misura di carattere universale contro la povertà. La soluzione è anche qui comune a quella adottata in altri paesi, che hanno introdotto misure simili di welfare universale ma selettivo; esse  sono state ritenute più praticabili e meno esposte rischi di deviazione assistenzialistica delle misure di reddito di cittadinanza, finora variamente proposte ma poco o nulla praticate. La  scelta del reddito di cittadinanza è rischiosa, perché implica una accettazione rassegnata della mancanza di lavoro e la rinuncia a cimentarsi con le sfide della povertà. Queste sono complesse e  vanno affrontate con politiche di inclusione e di contrasto alle diseguaglianze, oltre che con aiuti alle persone a uscire dallo stato di indigenza. Allo stesso fine sono necessarie  politiche lungimiranti di sostegno e di investimento sulla famiglia; mentre attualmente le politiche familiari sono un buco nero del nostro welfare.

 

  1. Investire  nelle politiche attive

Anche la riforma del mercato del lavoro ha fatto passi avanti in  direzione europea, in particolare con l’estensione in senso universalistico degli ammortizzatori sociali attuata con il Jobs Act. Ma non è abbastanza per essere efficace. Il limite più grave dello stato attuale è la mancanza di investimenti organizzativi e in risorse umane necessari a rendere  i servizi pubblici all’impiego veramente utili ai cittadini e capaci di competere e di collaborare da pari con le agenzie del lavoro privato.

Il secondo limite della regolazione attuale è il mantenimento delle competenze legislative in capo alle regioni dopo la bocciatura del referendum. Il che impedisce un vero governo unitario delle politiche del lavoro, tanto più necessario in un paese come l’Italia già così diviso. Qualche  miglioramento, ad esempio nei rapporti fra ANPAL  e regioni, può essere introdotto entro l’attuale assetto costituzionale dei poteri. Ma per evitare o ridurre gli effetti potenzialmente distorsivi di tale assetto e attuare  una efficace strategia di governo del mercato del lavoro, utile alla occupazione in primis  per i giovani, serve una leale collaborazione tra Stato e regioni che permetta di operare insieme stabilmente e senza ambiguità nella modernizzazione dei servizi e delle politiche attive. 

Un impegno maggiore di riforma, anzi un vero salto di qualità, è richiesto per la formazione, sia generale sia professionale.

 

  1. La formazione:  base  del lavoro  e del welfare  futuri 

Qui il compito è duplice. Anzitutto urge riordinare e potenziare gli attuali strumenti formativi, superando il disordine e la frammentazione che caratterizza l’attuale sistema. Gli enti bilaterali possono svolgere un ruolo decisivo per avvicinare la formazione al mondo del lavoro e alle imprese. Ma necessitano essi stessi  di un riordino, di una regolazione più chiara e di controlli trasparenti. Inoltre, e soprattutto, è necessario un salto negli investimenti e nella  qualità della formazione.

Le piste formative, a cominciare dalla educazione di base e poi quella continua nel corso della vita, devono congiungere in modo nuovo conoscenze generali riguardanti i contesti e i linguaggi dei sistemi produttivi, con le competenze specifiche, in primis digitali, e con capacità relazionali che sono essenziali per combinare in modo attuale tecnologia e persone.

La formazione così concepita può diventare parte integrante, anzi la base stessa, degli investimenti strategici per il futuro  e il motore di un welfare attivo. E’ per questa  sua funzione  che la formazione merita sostegni pubblici anche fiscali, come quelli inclusi nel programma industria 4.0 varato dalla passata legislatura.

La formazione è un bene comune e insieme  un prezioso strumento di crescita delle persone. E’ quindi necessario permettere ai singoli, ai giovani in particolare, di essere protagonisti nelle scelte relative al suo impiego, come ad esempio è avvenuto in Francia con la sperimentazione del conto personale  di attività.

 

  1. Flessibilizzare le pensioni  e dare garanzie ai giovani

Il nostro sistema previdenziale presenta una storia tormentata e contraddittoria, che la presente legislatura è riuscita in parte a raddrizzare. L’improvvida scelta del 2012 di alzare troppo rapidamente l’età pensionabile non è stata corretta. Le comprensibili reazioni sociali hanno dato origine alle ondate successive di persone “salvaguardate”, cioè fatte rientrare nel vecchio sistema pensionistico,  sulla base peraltro di giustificazioni incerte e con costi crescenti. Si è trattato di una deriva che poteva evitarsi o arginarsi con altri sistemi, ad esempio con ammortizzatori mirati, che pure erano stati proposti anche in sede parlamentare. I provvedimenti di questa legislatura, dalle varie forme di APE, alla scelta della legge di bilancio di differenziare  le piste di uscita pensionistica a seconda dei lavori hanno corretto il tiro. Ma è da verificare se questo basti, o se non è invece necessario superare  l’idea delle soglie rigide di pensionamento, per ridare ai singoli libertà di scelta del proprio pensionamento, entro fasce predefinite com’era nella logica del sistema contributivo. Naturalmente sarà necessario adattarne i parametri per tener conto delle aspettative di vita, e delle variazioni di queste per soggetti aventi percorsi professionali particolarmente onerosi e precoci. 

Ma l’urgenza maggiore in questa materia è di dare seguito all’accordo fra governo e sindacati concluso un anno fa, che prevede la istituzione di una pensione di garanzia  che integri nella misura  necessaria le prestazioni risultanti dalla stretta  applicazione del metodo contributivo con prestazioni di tipo solidaristico. Le condizioni di questa pensione di garanzia vanno precisate bene per non “scassare” il sistema; ma  una simile soluzione è necessaria se si vuole evitare il rischio, già incombente, di un futuro di pensioni povere per i giovani di oggi.

In realtà un’altra esigenza posta dall’innalzamento dell’ età di pensione è di valorizzare la attività delle persone anziane con misure di active aging  anche in azienda. La responsabilità prima per queste misure spetta alle imprese, che finora hanno fatto poco o niente per sperimentarle. Ma il legislatore può favorire tale sperimentazione incentivando anzitutto progetti esemplari e misure di staffetta generazionale più convincenti di quelle proposte finora.

 

  1. Sostenere la contrattazione  collettiva, ma con regole certe

Infine il capitolo delle relazioni industriali. Queste sono state  oggetto di interventi specifici ma molto efficaci nelle ultime leggi finanziarie: quelli che hanno sostenuto sul piano fiscale e contributivo la contrattazione decentrata sui premi di produttività e sul welfare, con incentivi  aumentati qualora i contratti introducano forme partecipative dei lavoratori alla organizzazione del lavoro 

I dati del Ministero del Lavoro analizzati con una ricerca congiunta di CNEL, INAPP e Anpal,  mostrano che tali misure legislative hanno avuto un impatto positivo sulla diffusione e  sulla qualità della contrattazione nelle  imprese e nel territorio, a conferma  della opportunità della scelta del legislatore.

Nonostante tali interventi le nostre relazioni industriali restano ancora prive, uniche in Europa, delle regole fondamentali, in particolare riguardanti la misura della rappresentatività delle parti. Le stesse parti sociali hanno ormai riconosciuto che questa mancanza di regole ha conseguenze  negative per il funzionamento e per la stessa affidabilità delle relazioni industriali. Ne sono una riprova gli 880 contratti collettivi nazionali depositati al CNEL, dei quali più della metà non rappresentativi e spesso anomali.

Non mancano le proposte di regolazione  elaborate sia in sede parlamentare sia dalle stesse parti sociali. Questo è un lascito, sia pure incompleto, della legislatura ora terminata che andrà raccolto dal prossimo legislatore. Una scelta in tal senso migliorerebbe il contesto istituzionale in cui le parti sociali devono operare, e aumenterebbe le possibilità  che le relazioni industriali diano  un contributo positivo al consolidamento della ripresa economica in atto.

 

 

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