Interpretazioni fantasiose. Sul reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 stelle circolano molte interpretazioni false, alimentate dallo stesso nome utilizzato. Stranamente i Cinque stelle non si sono curati di smentirle. Come se ci fosse un simmetrico interesse tra loro e i loro oppositori a lasciar credere qualche cosa di falso, ovvero che il reddito di cittadinanza verrebbe dato a tutti, o almeno a tutti i “disoccupati”, indipendentemente dal reddito e senza condizioni. Lo ha sostenuto, in chiave di denuncia, Matteo Renzi lungo tutto la campagna elettorale. Lo ha ripetuto ancora qualche sera fa, esprimendo la sua totale contrarietà di principio, anche Carlo Calenda su la7, da Lilli Gruber, per esemplificare una delle ragioni per cui sarebbe contrario a un sostegno del Pd a un governo a guida M5s.
Invece di smentire queste interpretazioni, i M5s hanno lasciato che si diffondessero, contando sull’attrazione che potevano avere per una parte dell’elettorato.
Premesso che il reddito di cittadinanza ha fautori di tutto rispetto nel dibattito internazionale, da Tony Atkinson a Philippe Van Parijs per fare due nomi, ed è sostenuto da non banali argomentazioni filosofiche e politiche, quello proposto dal M5s non corrisponde a quel concetto, dato che il reddito di cittadinanza, o di base, è inteso come un ammontare da dare a tutti senza condizioni e indipendentemente dalle condizioni individuali e famigliari. Non è concepito come uno strumento di contrasto alla povertà e neppure in alternativa al lavoro, ma come strumento di libertà per negoziare le condizioni a cui lavorare.
Il reddito chiamato impropriamente di cittadinanza da M5s, invece, concettualmente non è diverso dal reddito di inclusione (Rei), che tardivamente, e con molte resistenze entro lo stesso Pd, è stato introdotto dal governo uscente: un reddito a sostegno di chi si trova in povertà, condizionato alla disponibilità di darsi da fare per trovare un lavoro. Anzi, il cosiddetto reddito di cittadinanza M5s su questo punto appare sulla carta più stringente del Rei, dato che imporrebbe di accettare qualsiasi lavoro.
Differenze tra Rei e reddito di cittadinanza
Le differenze tra le due misure sono grandi solo su due punti – e la cosa non è irrilevante perché ha effetti sul costo: l’individuazione della soglia di povertà, che nel caso della proposta M5s è molto più alta, quindi la misura riguarderebbe una platea maggiore di quella stimata, a regime, per il Rei; così come sarebbero molto più alti gli importi medi e dunque il costo complessivo della misura. Inoltre, sembra (su questo non c’è sufficiente chiarezza) che si tenga conto solo del reddito e non della ricchezza, cioè dell’Isee, con tutti i rischi di “falsi poveri” che tale criterio comporta. Infine, a differenza del Rei, il sostegno sarebbe erogato fin che il bisogno persiste e non sospeso dopo 18 mesi, a prescindere che la situazione sia migliorata o meno. Il principio in sé è condivisibile (ed è adottato nella maggioranza delle democrazie occidentali). Ma se considerato insieme al grande numero dei potenziali beneficiari, alla difficoltà di approntare per ciascuno di loro un progetto lavorativo realistico e che li porti a superare la soglia di povertà posta relativamente molto in alto, il principio rischia di trasformare questa forma di sostegno al reddito in un contributo permanente. Rischia anche di provocare ingiustizie tra chi si trova sotto la soglia, ma non è disoccupato e dunque non ha i requisiti per ottenere il sostegno e chi è ufficialmente disoccupato e quindi, tramite il reddito di cittadinanza, ottiene un reddito fino alla soglia di povertà individuata. Per lo stesso motivo, rischia di favorire il lavoro nero.
Tutte queste caratteristiche rendono la proposta insostenibile nel breve-medio periodo dal punto di vista finanziario e dubbia dal punto di vista sia dell’equità sia dell’efficacia. Ma non impedirebbero di utilizzarne gli importanti aspetti di universalismo a parità di bisogno e di vincolo di durata connesso all’uscita dal bisogno per migliorare il Rei. Innanzitutto, finanziandolo in modo adeguato a coprire, possibilmente con un ammontare più corposo, tutta la platea dei poveri assoluti e non solo meno della metà, come avverrà da giugno, quando entrerà in vigore sostituendo il più restrittivo Sia (sostegno per l’inclusione attiva) che lo ha preceduto. In secondo luogo, si potrebbe pensare di premiare chi si ingegna a procurarsi un reddito da lavoro, per quanto insufficiente, non togliendo, fino a una soglia da definire, un euro di sussidio per ogni euro guadagnato. In terzo luogo, andrebbe valutata la sensatezza, dal punto di vista dell’equità e dell’efficacia, di interrompere il sostegno dopo 18 mesi, anche se, nonostante gli sforzi e la buona volontà, la persona e la famiglia non sono riusciti a uscire dalla povertà assoluta.
Chi ha a cuore la sorte dei poveri – e non pensa che debbano vivere in apnea in attesa che la domanda di lavoro sia adeguata numericamente al bisogno e offra sempre un reddito decente – non può continuare a ripetere come un mantra che invece di sostenere il reddito occorre creare lavoro, come se le due cose fossero in alternativa. Come se ci fosse abbastanza lavoro per tutti e se bastasse avere un lavoro per uscire dalla povertà, in un paese in cui oltre il 12 per cento delle famiglie di operai è in povertà assoluta e oltre l’11 per cento dei minori che si trovano in povertà assoluta vive in una famiglia dove c’è una persona che lavora. Senza fughe in avanti, con realismo, si può migliorare il Rei anche sulla base di un accurato monitoraggio di ciò che funziona e ciò che invece va cambiato. Senza buttare a mare il poco, ma importante, che si è cominciato a fare, in nome di promesse che è impossibile mantenere. Un ragionamento analogo vale anche per il “reddito di dignità”, proposto in modo molto più generico dalla coalizione di centro-destra.
*La voce 13/03/2018