Veramente dobbiamo credere a quanto si legge, a proposito del successo per il m5s nel Mezzogiorno, che dipende dalla promessa di darea tutti i disoccupati un Reddito di Cittadinanza di 780 euro al mese? Veramente dobbiamo credere che esso sia una genialità inedita che è stata accolta da una moltitudine di creduloni come la panacea dei loro mali? Sono giorni e giorni che impazza sui media una discussione tutta politica intorno a questo argomento, presentandolo come un oggetto divisivo, enfatizzando le ragioni e le conseguenze, come se la campagna elettorale fosse ancora in corso.
In realtà, il voto del Mezzogiorno non è stato affatto emotivo, opportunistico, neoclientelare. Certo, una quota di queste motivazioni la si può riscontrare tra la gente, specie quanti – soprattutto giovani – sono da anni in cerca di lavoro stabile e anche volendo accontentarsi di lavoretti, non ne trovano. Ma la dimensione del voto è tale da escludere che questa sia stata l’unica e prevalente opzione che ha consentito la concentrazione della preferenza elettorale sul m5s. Evidentemente, c’è dell’altro, che ha fatto scattare la corsa verso il “nuovo”.
Da sempre nelle Regioni del Sud si vota in presenza di una disoccupazione massiccia. I meridionali non hanno mai conosciuto la piena occupazione, anche nei mitici anni sessanta, quelli del “miracolo economico”. Ed una sola volta hanno votato per una formazione populista, nel senso stretto del termine: all’inizio della fase repubblicana post bellica dell’Italia, con “L’uomo qualunque”. Durò lo spazio di un mattino, con un riassorbimento sistematico e durevole soprattutto da parte della Democrazia Cristiana. Negli anni successivi, l’emigrazione verso il Nord, la Cassa del Mezzogiorno e l’avvio del welfare moderno, che nel Mezzogiorno si è subito condito con salsa assistenziale contribuirono ad attutire il disagio di una diffusa disoccupazione e ad alimentare speranze sufficienti per non far esplodere ribellioni con annesso falò dei municipi, come nei primi anni del dopoguerra.
Questo scenario, sia pure con alti e bassi e qualche vistosa eccezione (l’esperienza milazziana in Sicilia), è durato fino all’inizio di questo secolo e si è definitivamente acutizzato con la crisi iniziata nel 2008. La spesa pubblica – con tutti i suoi rivoli nazionali, regionali e locali – si è andata prosciugando sia in termini di opportunità occupazionale, sia di qualità dei servizi erogati. Vada per la penuria di occasioni di lavoro; la gente del Sud la considera una costante. Ma se ad essa si aggiunge che le pensioni d’invalidità si erogano sempre più con il contagocce, la scuola produce tanto drop out, la sanità è inaffidabile nei tempi ed è sempre più costosa, i trasporti sono in ritardo trentennale, la banda larga non arriva e le strade sono tutte una buca, è inevitabile che la rabbia quotidiana e il rancore per essere considerati di serie B la fanno da padrone.
Il gradualismo è inascoltato. Eppure, la ripresa economica riguarda anche il Mezzogiorno, sebbene a macchia di leopardo. Infatti, se Sicilia e Sardegna sono effettivamente ancora con l’acqua alla gola, in Campania i dati di Prometeia relativi al 2016 e 2017 registrano un PIL del +4,6% superiore a quello della Germania. Una contaminazione, che riguarda industria e servizi privati, che è meno brillante in Puglia e Basilicata, ma è in corso. Eppure, questa inversione di tendenza non viene percepita; semmai è annebbiata dalla cattiva amministrazione, dagli sprechi e ruberie che continuano, dall’illegalità diffusa e spesso tollerata. Ma non si è alle soglie della ribellione. Piuttosto è un grido di dolore che non va esorcizzato.
Neanche con il Reddito di cittadinanza. Che non è la mitica proposta di Meade e poi ripresa da van Parijs, di rivoluzionare il sistema di welfare, assicurando a tutti, anche agli abbienti, un minimo di reddito come base per “far da sé” l’autotutela sociale. Quello che è stato indicato come la bandiera che ha favorito il successo nel Sud del m5s in realtà assomiglia al Reddito d’inserimento (REI) voluto fortemente dall’Alleanza della povertà ed introdotto dal Governo a partire dal 1 luglio di quest’anno. L’unica differenza è che la proposta del m5s espande enormemente la platea dei beneficiari e alza il livello dell’assegno. Una differenza non soltanto quantitativa, per la quale c’è da verificare con serietà se ci sono le coperture sufficienti, ma anche e soprattutto qualitativa.
Non a caso si sono alzate autorevoli voci ( tra le quali quelle di Gori, Saraceno, Ferrera raccolte in questo dossier) per chiedere che non si blocchi l’avvio del REI ma semmai lo si migliori. Un sostegno di questo genere ha bisogno di molto tutoraggio e parecchi controlli, se non si vuole incorrere nel rischio di beneficiare i più scaltri a danno dei più bisognosi. Le situazioni di povertà assoluta sono le più variegate e non riguardano soltanto i disoccupati; di poor workers è pieno il Sud. Esse vanno verificate concretamente e non tutti i comuni e non tutti i centri dell’impiego sono attrezzati per monitorare le situazioni di partenza e lo sviluppo delle condizioni personali e familiari. Occorrono abbondanti risorse e specifiche professionalità, diffuse in tutto il territorio nazionale, che non si mettono assieme in quattro e quattr’otto. In più, ritengo che la scissione tra ente certificatore (comune, centro per l’impiego) ed ente erogatore (INPS) indebolisca fortemente la propensione alla ricerca di lavoro, che tanto il Governo passato che il m5s dichiarano di voler perseguire. Chi ha esperienza di gestione della Cassa Integrazione, sa che non ci sono state mai interruzioni di erogazione dell’assegno a seguito del rifiuto di posti di lavoro proposti dai certificatori.
Ma al di là delle technicalities, si può comprendere che non ci sono insormontabili ostacoli di principio per conciliare le proposte. Semmai si tratterà di valutare le compatibilità economiche e la strutturalità del sistema pubblico per non scadere nell’assistenzialismo. Il m5s, in realtà, ha scippato alla maggioranza della precedente legislatura il tema della tutela dalla povertà, aggiungendo una disinvolta carica di demagogia, non adeguatamente contrastata. Come intervenire sulle cause vere del profondo disagio dei meridionali, non c’è traccia nel suo programma elettorale, per cui non si può dire che abbia una solida egemonia di sana cultura meridionalistica.
Eppure quel grido di dolore non deve cadere nel vuoto. Chi riuscirà a dare risposte in senso strategico, quello sarà veramente un catalizzatore del consenso tra i meridionali. Niente per ora è consolidato, per nessuno dei competitors politici. Per tutti però c’è un lavoro duro da compiere, perché il tempo della tolleranza è scaduto, quello delle fritture di pesce gratis è caduto in disgrazia, quello dei venditori di sogni farlocchi facilmente smascherato.