Da qualche giorno sono state rese note le motivazioni con le quali il giudice di Torino ha respinto il ricorso di alcuni lavoratori di Foodora secondo i quali la loro prestazione avrebbe dovuto essere riqualificata come subordinata, con le conseguenti tutele in materia di salario, orario sicurezza e tutela dei propri dati personali.
Il giudice non ha confermato, invece, la correttezza del loro inquadramento come collaboratori, rigettando in toto le loro richieste.
Una premessa è d’obbligo: i lavoratori si sono fatti assistere da avvocati non collegati con i sindacati confederali, non conosco se non per le citazioni contenute nella sentenza le argomentazioni dei loro avvocati.
Detto ciò, la sentenza si rifà a precedenti piuttosto lontani nel tempo, nello specifico all’inquadramento dei cosiddetti “pony express” quali lavoratori autonomi, e alla definizione del lavoro subordinato rintracciabile in Cass. 2728/2010 che conviene citare per esteso: “costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltreché dall’esercizio di un’assidua vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative.”
Assunti questi riferimenti il giudice ripercorre i tratti qualificanti del rapporto dei fattorini con Foodora e, rilevato che non era loro obbligo accettare le chiamate per le corse, ne deriva inesorabilmente che a nulla valevano gli altri elementi pure citati dai lavoratori a riprova della natura sostanzialmente subordinata del loro rapporto, e conferma, come detto, la corretta qualificazione del rapporto rigettando tutte le richieste.
Non spetta certamente a me giudicare se vi siano elementi per ricorrere contro questo esito, e tuttavia credo sia opportuno capire se da un lato l’argomentazione sia così rigorosa come sembra, e dall’altro se non vi sia un terreno nuovo su cui legislatore e – soprattutto – parti sociali non si debbano cimentare.
In primo luogo, siamo sicuri che il precedente dei pony express sia adeguato, e che quella definizione di lavoro subordinato sia applicabile in modo così dogmatico? Io credo che le nuove applicazioni della tecnologia, i cosiddetti “algoritmi” che disciplinano la prestazione di tanti lavoratori (non solo i fattorini, si pensi ai lavoratori di Amazon), contengano in sé elementi tali da suggerire di rivedere passate risoluzioni giurisprudenziali. Perché un conto è una radio, che dice al lavoratore dove ritirare un pacco e dove consegnarlo, un altro è uno strumento che aggiunge a queste funzioni il calcolo del percorso ottimale, il controllo se il percorso sia seguito e se il tempo per farlo è congruo, intervenendo addirittura a richiamare il lavoratore se ciò non si verifichi.
E’ ben vero che inizialmenteil lavoratore poteva non accettare la chiamata, o addirittura on presentarsi nel punto di raccolta, ma non credo si possa ridurre – come fa la sentenza – l’esercizio di oggettivo controllo della prestazione al concetto di “coordinamento”. Perché qui si pone – a mio giudizio – un grande tema di politica del lavoro: se cioè le conseguenze sul lavoro del salto tecnologico innegabile conseguito con gli smatphones e la rete sia ancora affrontabile con la dicotomia subordinazione/autonomia, a maggior ragione se si adotta pedissequamente la ricostruzione del lavoro subordinato riassunta dalla sopra richiamata sentenza della Cassazione.
Proprio per il diffuso ingresso della tecnologia nell’organizzazione del lavoro di qualsiasi posto di lavoro “ordini specifici e assidua vigilanza da parte del datore di lavoro” sono sempre meno interpretabili come fisica presenza della gerarchianello svolgimento della prestazione lavorativa, e fiumi di inchiostro e decine di convegni proclamano che oggi al lavoratore (non al lavoratore autonomo) si chiede capacità d risolvere problemi, spirito d’iniziativa, lavoro di squadra e via enumerando (di solito in inglese, perché fa fine…): basti ricordare che Bruno Trentin ci ammoniva che le imprese non chiedevano più solo le braccia dei lavoratori, ma le loro menti…e ci ricordava come fosse vecchio e superato il concetto di subordinazione intesa come semplice cessione di energia lavorativa in cambio di salario, perché ciò non ammetteva che il lavoratore potesse avere una prospettiva di propria liberazione attraverso il lavoro.
E in effetti, se adottassimo dogmaticamente la definizione di Cassazione 2728/10 da un lato non sapremmo come inquadrare i livelli gerarchici, che per definizione anziché ricevere ordini specifici e subire vigilanza altrui fanno esattamente quelle cose, ma soprattutto non comprenderemmo perché uno dei criteri per definire i sistemi di inquadramento dei lavoratori subordinati nei CCNL è proprio…la loro autonomia!
Tutto risolto, quindi, basta interpretare in modo più adeguato il concetto di subordinazione? Ecco, io penso che non sarebbe sufficiente, quasi pavlovianamente, replicare alla sentenza sostenendo che si tratti di lavoro subordinato. Anche perché, nel frattempo, il legislatore ha ben pensato di introdurre nell’ordinamento il lavoro subordinato a chiamata, cosicché si rischierebbe la beffa di vedersi riconosciuta la dipendenza, ma a quel punto perdere l’unico residuo di libertà, ossia la facoltà d non accettare la chiamata…
Io penso si debba invece fare i conti con le sfide che il progresso tecnologico pone al mondo del lavoro, nel senso di riconoscere, primadi definire la natura subordinata o autonoma del rapporto, che ci sono circostanze quali quelle qui discusse in cui sono in gioco la libertà e la dignità delle persone che lavorano, e che l’ordinamento deve essere in grado di rispondere a queste istanze.
Stiamo parlando di cose semplici, elementari ma che devono diventare universali: un compenso non inferiore a quanto previsto dall’articolo 36 della Costituzione, un tempo di lavoro in grado di assicurare il diritto al riposo e alla ricostituzione dell’equilibrio psico-fisico, una tutela rispetto ai rischi del proprio lavoro, compresa l’usura degli strumenti di lavoro, la salvaguardia della propria dignità rispetto alle potenziali intrusioni della tecnologia rispetto alla propria vita privata, per finire con il riconoscimento del diritto ad organizzarsi per avanzar e sostenere le proprie rivendicazioni.
Su questo dice cose analoghe e giustissime Adalberto Perulli in un acuto articolo sul Sole 24 ore del 3 maggio u.s.
La Cgil ha pensato a questo quando ha costruito la Carta dei diritti universalidei lavoratori e delle lavoratrici, su cui ha raccolto milioni di firme e il cui testo giace oggi in Parlamento: sarà banco di prova di nuove maggioranze e nuovi Governi dare risposte a queste tematiche. Ma intanto la contrattazione può e deve scommettere sulla sperimentazione di soluzioni su questi ambiti, perché così un giudice futuro potrà – forse – avere uno sguardo meno chiuso sul mondo che cambia.
(*) Segretario generale NIdiL-Cgil