Non ci sono i fondamentali dell’economia dietro i primi segnali di una possibile crisi finanziaria italiana. C’è la crisi politica, lo stallo, la confusione, l’insondabilità delle prospettive.
Come a Weimar, che aveva domato l’iper-inflazione e varato un grande programma di opere pubbliche, con la disoccupazione che cominciava a declinare. Ciò nonostante la crisi politica portò a quello che sappiamo, e qualche mese dopo Hitler si faceva fotografare con la vanga in mano nei cantieri delle nuove autostrade programmate e finanziate dal governo precedente.
In queste ore drammatiche continuano a circolare nel dibattito politico tanta superficialità e inaccettabili pressappochismi sul debito pubblico italiano. Non è vero che preoccuparsi dello spread significa dimenticare i bisogni delle persone: una crisi del debito colpirebbe per prima, e violentemente, la carne viva degli italiani.
E non è vero che l’Europa sia una matrigna cattiva: da qualche anno il nostro debito è sostenibile solo grazie al supporto del sistema europeo delle banche centrali. Qualsiasi prospettiva di superamento di questo problema passa, oltre che da un responsabile impegno nazionale, per l’Europa. Fuori dall’Europa c’è solo il naufragio.
Molti pensano che i titoli pubblici italiani siano prevalentemente nelle mani di investitori esteri sui mercati internazionali, con la conseguente perdita di sovranità del nostro paese a vantaggio di grandi e oscuri poteri capitalistico-finanziari. Non è vero: circa il 50 per cento dei titoli pubblici italiani è nelle mani di famiglie e imprese italiane e solo il 26,5 per cento in quelle di investitori esteri (vedi tabella in fondo al post).
Quindi una crisi del debito italiano verrebbe pagata in primo luogo dai risparmiatori italiani. Se poi si dovesse innescare una crisi delle banche italiane, che posseggono il 15 per cento del debito della Repubblica, allora i costi cadrebbero non solo sui risparmiatori che hanno acquistato BOT e BTP (direttamente o tramite gestioni patrimoniali o fondi comuni) ma su tutti gli italiani che hanno un deposito in banca, com’è avvenuto in Grecia.
Un’altra idea (narrazione) sbagliata riguarda l’euro e l’Europa. Non c’è dubbio che l’euro sia una costruzione imperfetta, in assenza di istituzioni e politiche comuni per l’insieme delle politiche economiche, e non solo di quelle. E non c’è dubbio che l’Unione Europea di oggi sia molto lontana dal rispondere alle aspettative che in quel progetto erano state riposte.
Ma per quanto riguarda i debiti pubblici, e quindi in particolare quello italiano che è il più alto d’Europa in rapporto al Pil, a parte la Grecia, si può ben dire che la sua sostenibilità è aiutata in modo cruciale proprio dall’Europa. A sette anni dall’inizio degli acquisti di titoli pubblici dell’eurozona da parte del sistema europeo delle banche centrali il 19,1 per cento del debito italiano è nelle mani di Banca d’Italia, per un valore di circa 430 miliardi. A cui va aggiunta una quota più piccola in mano alle altre banche centrali.
È vero che il programma di acquisti va riducendosi nel tempo. Ma è altrettanto vero che il sistema delle banche centrali europee ha deciso di mantenere inalterato nel suo portafoglio l’ammontare di titoli posseduti, procedendo a nuovi acquisti per sostituire i titoli in scadenza.
Il beneficio di questo sostegno è enorme: ha evitato il fallimento dello Stato italiano nella terribile crisi del 2011 e ha ridotto la fragilità delle nostre pubbliche finanze negli anni successivi. Lo fa ancora oggi e lo farà negli anni a venire.
Il vincolo del debito pubblico sull’economia italiana non deriva dall’Europa ma dalla nostra storia nazionale: il suo aumento, prima progressivo e poi esplosivo, è avvenuto negli anni ’70 e ’80 del secolo passato, ben prima di Maastricht e dell’euro. La sua sostenibilità dipende in modo essenziale da adeguate azioni europee di sistema.
Qual è la natura della montagna di titoli pubblici italiani che stanno nei bilanci delle banche centrali d’Europa, e soprattutto di Banca d’Italia? Se ne può proporre (imporre?) la cancellazione, come veniva sconsideratamente ipotizzato in una prima versione del programma di governo pentaleghista? Ovviamente no, se non si vuole innescare una crisi devastante per famiglie e imprese italiane e far crollare la reputazione del paese.
Il “sentiero stretto” dell’Italia passa per l’Europa e per una positiva evoluzione culturale e politica delle sue istituzioni, a cui l’Italia può e deve partecipare da protagonista in virtù della sua importanza e della sua storia. Per far valere questo ruolo non basta sbattere i pugni sul tavolo, occorre lavorare quotidianamente per costruire soluzioni condivise. Occorre fare da sponda al tentativo di Macron. Occorre portare la Germania verso politiche che sarebbero benefiche anche per quel paese.
E magari occorre capire che non è proprio la scelta migliore quella di mandare in Europa, per fare questo lavoro, un ministro che nei suoi ultimi scritti sostiene posizioni ferocemente anti-tedesche.
È una banale considerazione di tattica nelle trattative. Ma è anche un punto politico: l’estremismo verbale anti-tedesco in Italia è l’altra faccia della medaglia dell’estremismo verbale anti-italiano in Germania. Se questi estremismi deteriori diventassero dominanti avremmo fatto un salto indietro di settanta anni.
Detentori del debito pubblico italiano
Valore percentuale
Valore in miliardi di euro
Banca d’Italia
19,1%
432
Banche italiane
15,3%
346
Famiglie italiane
5,4%
122
Assicurazioni italiane
15,2%
344
Fondi comuni di diritto italiano
2,7%
61
Altri investitori/detentori italiani
6,9%
156
Investitori esteri
26,5%
600
Eurosistema e gestioni e fondi esteri riconducibili a risparmio italiano
8,9%
201
Totale
100,0%
2263
Fonte: Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2017
*Professore di Economia industriale e di Economia applicata presso l’Università degli Studi di Roma Tre