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I soldi non si fanno con i soldi, ma con il lavoro

Santità, un antico proverbio africano sostiene: “Se vuoi andare veloce vai solo, ma se vuoi andare lontano vai insieme”. Tutti noi sappiamo quanto si può correre velocemente, grazie ai nuovi strumenti dell’innovazione tecnologica, nella comunicazione – anche tra le persone – e nell’economia. Ma le crisi profonde che si sono succedute, assieme ad una perdurante e dilagante incertezza, sembrano averci tagliato e oscurato gli orizzonti. In Gran Bretagna, addirittura, è nato un ministero che si occupa della “solitudine”. Farebbe suo quel proverbio?

Questo proverbio esprime una verità; il singolo può essere bravo, ma la crescita è sempre il risultato dell’impegno di ciascuno per il bene della comunità. Infatti le capacità individuali non possono esprimersi al di fuori di un ambiente comunitario favorevole, dal momento che non si può pensare che il risultato raggiunto sia semplicemente la somma delle singole capacità. Dico questo non per mortificare i singoli o per non riconoscere i talenti di ciascuno, ma per aiutarci a non dimenticare che nessuno può vivere isolato o indipendente dagli altri. La vita sociale non è costituita dalla somma delle individualità, ma dalla crescita di un popolo.

 

Come si riesce ad essere “inclusivi”?

Vedere l’umanità come un’unica famiglia è il primo modo per essere inclusivi. Noi siamo chiamati a vivere insieme e a fare spazio per accogliere la collaborazione di tutti. Se ci guardiamo attorno con il cuore aperto non ci sfuggono le tante, le tantissime e preziose storie di sostegno, vicinanza, attenzione, di gesti di gratuità, toccando con mano che la solidarietà si estende sempre più. Se la comunità in cui viviamo è la nostra famiglia, diventa più semplice evitare la competizione per abbracciare l’aiuto reciproco. Come succede nelle nostre famiglie di appartenenza, dove la crescita vera, quella che non crea esclusi e scarti, è il risultato di relazioni sostenute dalla tenerezza e dalla misericordia, non dalla smania di successo e dalla esclusione strategica di chi ci vive accanto. La scienza, la tecnica, il progresso tecnologico possono rendere più veloci le azioni, ma il cuore è esclusiva della persona per immettere un supplemento di amore nelle relazioni e nelle istituzioni. 

Non avere un progetto condiviso sulle riduzione delle diseguaglianze in un sistema sempre più globalizzato può determinare quella che Lei chiama “l’economia dello scarto”, dove le stesse persone diventano “scarti”. Nell’ultimo documento (“Oeconomicae et pecuniariae quaestiones – Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico”) la Santa Sede afferma che l’economia “ha bisogno per il suo corretto funzionamento di un’etica amica della persona”. Ci può spiegare questo punto?

Innanzitutto una precisazione sull’idea degli scarti. Come ho scritto nell’Evangelii Gaudium: non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo, nella sua stessa radice, i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo, dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì siamo sbattuti fuori. Chi viene escluso, non è sfruttato ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori dalla società. Non possiamo ignorare che una economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà, schiavitù e di scarti.

  

Vuol dire che siamo in un contesto valoriale nemico della persona?

Abbiamo un’etica non amica della persona quando, quasi con indifferenza, non siamo capaci di porgere l’orecchio e di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non versiamo lacrime di fronte ai drammi che consumano la vita dei nostri fratelli né ci prendiamo cura di loro, come se non fosse anche responsabilità nostra, fuori dalle nostre competenze. Un’etica amica della persona diventa un forte stimolo per la conversione. Abbiamo bisogno di conversione. Manca la coscienza di un’origine comune, di una appartenenza a una radice comune di umanità e di un futuro da costruire insieme. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Un’etica amica della persona tende al superamento della distinzione rigida tra realtà votate al guadagno e quelle improntate non all’esclusivo meccanismo dei profitti, lasciando un ampio spazio ad attività che costituiscono e ampliano il cosiddetto terzo settore. Esse, senza nulla togliere all’importanza e all’utilità economica e sociale delle forme storiche e consolidate di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione delle responsabilità da parte dei soggetti economici. Infatti, è la stessa diversità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo. 

Nello stesso documento in cui è esplicito il messaggio perché l’attività finanziaria sia al servizio dell’economia reale, e non viceversa, colpisce l’appello alle scuole dove si formano i manager e i capitani d’industria del futuro, affinché ci si renda conto che i modelli economici che perseguono solo dei risultati quantitativi non saranno in grado di mantenere nel tempo sviluppo e pace. Significa che i manager dovrebbero essere formati, e poi giudicati, anche sulla base di parametri diversi da quelli attuali? Quali?

Mi sembra importante osservare che nessuna attività procede casualmente o autonomamente. Dietro ogni attività c’è una persona umana. Essa può rimanere anonima, ma non esiste attività che non abbia origine dall’uomo. L’attuale centralità dell’attività finanziaria rispetto all’economia reale non è casuale: dietro a ciò c’è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. E’ il lavoro che conferisce la dignità all’uomo non il denaro. La disoccupazione che interessa diversi Paesi europei è la conseguenza di un sistema economico che non è più capace di creare lavoro, perché ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro. E aggiungo, pensando ai lavoratori incontrati in Sardegna: la speranza è come la brace sotto la cenere, aiutiamoci con la solidarietà soffiando sulla cenere, la speranza, che non è semplice ottimismo, ci porta avanti, la speranza dobbiamo sostenerla tutti, è nostra, è cosa di tutti, per questo dico spesso anche ai giovani non lasciatevi rubare la speranza. Dobbiamo anche essere furbi, perché il Signore ci fa capire che gli idoli sono più furbi di noi, ci invita ad avere la furbizia del serpente con la bontà della colomba.

 

Furbizia e bontà per lottare contro l’idolo-denaro? Come si fa?

In questo momento nel nostro sistema economico al centro c’è un idolo e questo non va bene: lottiamo tutti insieme perché al centro ci siano piuttosto la famiglia e le persone, e si possa andare avanti senza perdere la speranza. La distribuzione e la partecipazione alla ricchezza prodotta, l’inserimento dell’azienda in un territorio, la responsabilità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattamento salariale tra uomo e donna, la coniugazione tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell’ambiente, il riconoscimento dell’importanza dell’uomo rispetto alla macchina e il riconoscimento del giusto salario, la capacità di innovazione sono elementi importanti che tengono viva la dimensione comunitaria di un’azienda. Perseguire uno sviluppo integrale chiede l’attenzione ai temi che ho appena elencato. 

 

Cosa fa bene all’azienda?

Il modo di pensare l’azienda incide fortemente sulle scelte organizzative, produttive e distributive. Si può dire che agire bene rispettando la dignità delle persone e perseguendo il bene comune fa bene all’azienda. C’è sempre una correlazione tra azione dell’uomo e impresa, azione dell’uomo e futuro di un’impresa. Mi viene in mentre il Beato Paolo VI che avrò la gioia di proclamare santo il prossimo 14 ottobre, che nell’enciclica Populorum progressio scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”». 

Il recente documento vaticano di analisi sul sistema economico cui ho già fatto riferimento osserva, soprattutto, come “quel potente propulsore dell’economia che sono i mercati non è in grado di regolarsi da sé: infatti essi non sanno né produrre quei presupposti che ne consentono il regolare svolgimento (coesione sociale, onesta, fiducia, sicurezza, leggi…) né correggere quegli effetti e quelle esternalità che risultano nocivi alla società umana (diseguaglianze, asimmetrie, degrado ambientale, insicurezza sociale, frodi…)”. Vuol dire che l’economia non può bastare a se stessa e ha in qualche modo bisogno di essere essa stessa “salvata”? Quali sono, a Suo giudizio, i “giusti”, limiti del profitto?

L’attività economica non riguarda solo il profitto ma comprende relazioni e significati. Il mondo economico, se non viene ridotto a pura questione tecnica, contiene non solo la conoscenza del come (rappresentato dalle competenze) ma anche del perché (rappresentata dai significati). Una sana economia pertanto non è mai slegata dal significato di ciò che si produce e l’agire economico è sempre anche un fatto etico. Tenere unite azioni e responsabilità, giustizia e profitto, produzione di ricchezza e la sua ridistribuzione, operatività e rispetto dell’ambiente diventano elementi che nel tempo garantiscono la vita dell’azienda. Da questo punto di vista il significato dell’azienda si allarga e fa comprendere che il solo perseguimento del profitto non garantisce più la vita dell’azienda. Oltre a queste questioni legate più direttamente all’azienda, dobbiamo lasciarci interpellare da ciò che sta intorno a noi. Non è più possibile che gli operatori economici non ascoltino il grido dei poveri. Ancora Paolo VI, – e voglio qui citarlo integralmente per la sua importanza – affermava nella Populorum progressio che «la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo disuguali da paese a paese: i prezzi che si formano “liberamente” sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa. L’insegnamento di Leone XIII nella Rerum novarum mantiene la sua validità: il consenso delle parti, se esse versano in una situazione di eccessiva disuguaglianza, non basta a garantire la giustizia del contratto, e la legge del libero consenso rimane subordinata alle esigenze del diritto naturale. Ciò che era vero rispetto al giusto salario individuale – ha scritto ancora il mio venerato Predecessore Paolo VI – lo è anche rispetto ai contratti internazionali: una economia di scambio non può più poggiare esclusivamente sulla legge della libera concorrenza, anch’essa troppo spesso generatrice di dittatura economica. La libertà degli scambi non è equa se non subordinatamente alle esigenze della giustizia sociale”».

 

Il “Sole 24 Ore” – come Radio 24 e l’Agenzia Radiocor Plus- è il quotidiano della Confindustria, cioè l’organizzazione degli imprenditori italiani che rappresenta 160 mila aziende, in grande maggioranza piccole e medie. Gli industriali italiani si battono per una società aperta e inclusiva. Cosa è necessario, a Suo giudizio, perché un imprenditore sia un “creatore” di valore per la sua azienda e per gli altri, a partire dalla comunità in cui vive e lavora? Dalla lettura dei Vangeli emerge peraltro che Gesù mostra grande simpatia (si pensi alla parabola dei cinque talenti) per gli imprenditori che si assumono un rischio.

Ricordo l’incontro che nel febbraio del 2016 ho avuto con l’Associazione. Ricordo tanti volti dietro ai quali c’erano passione e progetti, fatica e genialità; dicevo che ritengo molto importante l’attenzione alla persona concreta che significa dare a ciascuno il suo, strappando madri e padri di famiglia dall’angoscia di non poter dare un futuro e nemmeno un presente ai propri figli. Significa saper dirigere, ma anche saper ascoltare, condividendo con umiltà e fiducia progetti e idee. Significa fare in modo che il lavoro crei altro lavoro, la responsabilità crei altra responsabilità, la speranza crei altra speranza, soprattutto per le giovani generazioni, che oggi ne hanno più che mai bisogno. Credo sia importante lavorare insieme per costruire il bene comune ed un nuovo umanesimo del lavoro, promuovere un lavoro rispettoso della dignità della persona che non guarda solo al profitto o alle esigenze produttive ma promuove una vita degna sapendo che il bene delle persone e il bene dell’azienda vanno di pari passo. Aiutiamoci a sviluppare la solidarietà ed a realizzare un nuovo ordine economico che non generi più scarti arricchendo l’agire economico con l’attenzione ai poveri e alla diminuzione delle disuguaglianze. Abbiamo bisogno di coraggio e di geniale creatività.  

Il lavoro, che pure quando manca è un’intollerabile emergenza, personale e sociale, è spesso percepito come una sorta di condanna quotidiana, una routine insopportabile. Può indicarci, ad esempio, due ragioni perché non lo è, o almeno non lo deve essere, e i modi in cui le imprese si possono adoperare per far sì che non lo sia, con ciò stesso contribuendo anche al successo delle aziende stesse e alla prosperità della società?

L’idea che il lavoro sia solo fatica è abbastanza diffusa, ma tutti esperimentano che non avere un lavoro è molto peggio di lavorare. Quante volte ho raccolto lacrime di disperazione di padri e madri che non hanno più un lavoro! Lavorare fa bene perché è legato alla dignità della persona, alla sua capacità di assumere responsabilità per se e per altri. E’ meglio lavorare che vivere nell’ozio. Il lavoro dà soddisfazione, crea le condizioni per la progettualità personale. Guadagnarsi il pane è un sano motivo di orgoglio; certamente comporta anche fatica ma ci aiuta a conservare un sano senso della realtà ed educa ad affrontare la vita. La persona che mantiene se stessa e la sua famiglia con il proprio lavoro sviluppa la sua dignità; il lavoro crea dignità, i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione, creano dipendenza e deresponsabilizzano. Inoltre lavorare ha un alto significato spirituale in quanto è il modo con il quale noi diamo continuità alla creazione rispettandola e prendendocene cura.

Quale apporto Lei chiede alle imprese?

Le imprese possono dare un forte contributo affinché il lavoro conservi la sua dignità riconoscendo che l’uomo è la risorsa più importante di ogni azienda, operando alla costruzione del bene comune, avendo attenzione ai poveri. So che in molte aziende si dà un giusto spazio alla formazione. Sono convinto che gioverebbe molto ad un’azienda completare la formazione tecnica con una formazione ai valori: solidarietà, etica, giustizia, dignità, sostenibilità, significati sono contenuti che arricchiscono il pensiero e la capacità operativa. 

Il mondo globalizzato si è fatto in qualche modo piccolo, ormai abbiamo raggiunto i limiti di quella che Lei chiama la nostra casa comune, cioè il pianeta Terra, tanto che si progetta di colonizzare nuovi pianeti. L’ecologia e un mondo sostenibile sono una Sua grande preoccupazione e gli stessi grandi player internazionali dell’energia, a partire dell’italiano Eni, hanno annunciato le loro svolte “verdi”. Ritiene che su questo punto si stia facendo abbastanza?

C’è ancora molto da fare per ridurre comportamenti e scelte che non rispettano l’ambiente e la terra. Stiamo pagando il prezzo di uno sfruttamento della terra che dura da molti anni. Anche oggi, purtroppo, in tante situazioni, l’uomo non è il custode della terra ma un tiranno sfruttatore. Ci sono però segnali di nuove attenzioni verso l’ambiente; è una mentalità che gradatamente viene condivisa da un numero sempre maggiore di Paesi. E’ un percorso che ha bisogno di una cura particolare perché è necessario passare da una descrizione dei sintomi, al riconoscimento della radice umana della crisi ecologica, dall’attenzione all’ambiente ad una ecologia integrale, da un’idea di onnipotenza alla consapevolezza della limitatezza delle risorse. Il punto nodale è che parlare di ambiente significa sempre anche parlare dell’uomo: degrado ambientale e degrado umano vanno di pari passi. Anzi le conseguenze della violazione del creato sono spesso fatte pagare solo ai poveri. Lo sviluppo della dimensione ecologica ha bisogno della convergenza di più azioni: politica, culturale, sociale, produttiva. In particolare la formazione di una nuova coscienza ecologica ha bisogno di nuovi stili di vita per costruire un futuro armonico, promuovere uno sviluppo integrale, ridurre le disuguaglianze, scoprire il legame tra le creature, abbandonare il consumismo. 

 

Vuol dire che c’è bisogno di cambiare modello di produzione?

Come scrivevo nell’enciclica Laudato si’ questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura. Pensiamo, ad esempio, al nostro sistema industriale, che alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo di contrastare la cultura dello scarto che finisce per danneggiare il pianeta intero. Dobbiamo ammettere che in questa direzione il lavoro da fare rimane ancora molto. 

Tra gli “scartati” della Terra ci sono i migranti che si spostano da un continente all’altro in fuga dalle guerre o in cerca di condizioni per vivere o sopravvivere. Lei, in un periodo storico che vede le frontiere (anche quelle commerciali) chiudersi e prevalere i nazionalismi in un’Europa stanca e divisa, non si sente un po’ come un Mosè contemporaneo che apre il passaggio, apre le porte per tutti i popoli e le persone, a cominciare dai più poveri? C’è chi pensa che questa non sia comunque la missione di successore di Pietro. Perché, invece, ritiene che lo sia? E di cosa ha bisogno questa Europa per ritrovare una rotta comune e insieme per rispondere alle paure dei suoi cittadini?

I migranti rappresentano oggi una grande sfida per tutti. I poveri che si muovono fanno paura specialmente ai popoli che vivono nel benessere. Eppure non esiste futuro pacifico per l’umanità se non nell’accoglienza della diversità, nella solidarietà, nel pensare all’umanità come una sola famiglia. E’ naturale per un cristiano riconoscere in ogni persona Gesù. Cristo stesso ci chiede di accogliere i nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati con le braccia ben aperte, magari aderendo all’iniziativa che ho lanciato nel settembre dell’anno scorso: Share the Journey – Condividi il viaggio. Il viaggio, infatti, si fa in due: quelli che vengono nella nostra terra, e noi che andiamo verso il loro cuore per capirli, capire la loro cultura, la loro lingua, senza trascurare il contesto attuale. Questo sarebbe un segno chiaro di un mondo e di una Chiesa che cerca di essere aperta, inclusiva e accogliente, una chiesa madre che abbraccia tutti nella condivisione del viaggio comune. Non dimentichiamo, come ho già detto precedentemente, che è la speranza la spinta nel cuore di chi parte lasciando la casa, la terra, a volte familiari e parenti, per cercare una vita migliore, più degna per sé e per i propri cari. Ed è anche la spinta nel cuore di chi accoglie: il desiderio di incontrarsi, di conoscersi, di dialogare… La speranza è la spinta per “condividere il viaggio” della vita, non abbiamo paura di condividere il viaggio! Non abbiamo paura di condividere la speranza. La speranza non è virtù per gente con lo stomaco pieno e per questo i poveri sono i primi portatori della speranza e sono i protagonisti della storia.

  

Ma come deve muoversi, in concreto, l’Europa?

L’Europa ha bisogno di speranza e di futuro. L’apertura, spinti dal vento della speranza, alle nuove sfide poste dalle migrazioni può aiutare alla costruzione di un mondo in cui non si parla solo di numeri o istituzioni ma di persone. Tra i migranti, come dice lei, ci sono persone alla ricerca di “condizioni per vivere o sopravvivere”. Per queste persone che fuggono dalla miseria e dalla fame, molti imprenditori e altrettante istituzioni europee a cui non mancano genialità e coraggio, potranno intraprendere percorsi di investimento, nei loro paesi, in formazione, dalla scuola allo sviluppo di veri e propri sistemi culturali e, soprattutto in lavoro. Investimento in lavoro che significa accompagnare l’acquisizione di competenze e l’avvio di uno sviluppo che possa diventare bene per i paesi ancora oggi poveri consegnando a quelle persone la dignità del lavoro e al loro paese la capacità di tessere legami sociali positivi in grado di costruire società giuste e democratiche. 

Il Vaticano è in Italia e Lei è il vescovo di Roma. Ma il popolo italiano ha riservato grandi consensi alle forze politiche definite “populiste” che non condividono l’apertura delle porte del Paese ai migranti. Come vive questo scostamento tra pecore e Pastore?

Le risposte alle richieste di aiuto, anche se generose, forse non sono state sufficienti, e ci troviamo oggi a piangere migliaia di morti. Ci sono stati troppi silenzi. Il silenzio del senso comune, il silenzio del si è fatto sempre così, il silenzio del noi sempre contrapposto al loro. Il Signore promette ristoro e liberazione a tutti gli oppressi del mondo, ma ha bisogno di noi per rendere efficace la sua promessa. Ha bisogno dei nostri occhi per vedere le necessità dei fratelli e delle sorelle. Ha bisogno delle nostre mani per soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie commesse nel silenzio, talvolta complice, di molti. Soprattutto, il Signore ha bisogno del nostro cuore per manifestare l’amore misericordioso di Dio verso gli ultimi, i reietti, gli abbandonati, gli emarginati.

  

In che modo si può realizzare un percorso di integrazione in grado di superare paure e inquietudini, che sono reali?

Non smettiamo di essere testimoni di speranza, allarghiamo i nostri orizzonti senza consumarci nella preoccupazione del presente. Così come è necessario che i migranti siano rispettosi della cultura e delle leggi del Paese che li accoglie per mettere così in campo congiuntamente un percorso di integrazione e per superare tutte le paure e le inquietudini. Affido queste responsabilità anche alla prudenza dei governi, affinché trovino modalità condivise per dare accoglienza dignitosa a tanti fratelli e sorelle che invocano aiuto. Si può ricevere un certo numero di persone, senza trascurare la possibilità di integrarle e sistemarle in modo dignitoso. E’ necessario avere attenzione per i traffici illeciti, consapevoli che l’accoglienza non è facile. Ricordo qui quanto scrivevo quest’anno nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace: quattro pietre miliari per l’azione, che amo esprimere tramite i verbi «accogliere, proteggere, promuovere e integrare», e sottolineo che il 2018 condurrà alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. Patti che rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche. Per questo è importante che i nostri progetti e proposte siano ispirati da compassione, lungimiranza e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzione della pace: solo così il necessario realismo della politica internazionale non diventerà una resa al disinteresse e alla globalizzazione dell’indifferenza.

 

*dall’intervista IL SOLE 24 ORE 7/09/2018

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