I dati sull’andamento dell’occupazione nella prima metà del 2018 evidenziano due anomalie. La prima è che non assicurano lo stesso trend per la seconda parte dell’anno. Sarebbe sbagliato non apprezzare che si sta recuperando terreno rispetto al periodo precrisi, sia in termini di occupati che di calo della disoccupazione, anche giovanile. Ma se la frenata della produzione industriale di luglio dovesse essere confermata nei mesi successivi, è ragionevole pensare che un qualche effetto sui livelli occupazionali complessivi sarà registrato in negativo. Quindi, niente ottimismi di maniera. La seconda anomalia è data dal persistente allargamento dell’uso del contratto a tempo determinato a scapito di quello a tempo indeterminato, sia in termini assoluti che per quota. Né le misure del passato, né quelle che al momento della rilevazione erano in gestazione sotto il titolo “decreto dignità” sembrano aver influenzato le opinioni dei protagonisti del mercato del lavoro.
Questi ultimi, allarmati dalle iniziali parole velleitarie del Ministro del lavoro, si sono dati da fare per evitare che la “svolta storica” (parole di Di Maio) fosse eccessivamente dannosa. Le rappresentanze degli imprenditori e dei lavoratori hanno fatto massa critica, convergendo sia verso un’attenuazione delle cosiddette “causali” per il ricorso al contratto a tempo determinato e la creazione di un periodo transitorio fino ad ottobre di questo anno, sia per uno sgravio contributivo per i nuovi assunti a contratto a tempo indeterminato. Niente di nuovo sotto il cielo di un mercato del lavoro sempre più duale e dalle prospettive incerte. La legge di conversione del decreto ha accolto alcune delle critiche avanzate e ora vedremo che effetti produrrà nelle scelte concrete delle aziende.
Nel frattempo, sul primo prodotto del neo Ministro del lavoro è calato il silenzio. Le trombe che avevano squillato in modo roboante nei mesi precedenti hanno ceduto il passo, fin troppo in fretta, ad altri argomenti. E’ inutile fare processi alle intenzioni. Rimaniamo ai fatti. E questi sono sotto gli occhi di tutti. Ben che vada, non ci saranno né straordinari transiti di persone dal precario tempo determinato verso il più stabile tempo indeterminato, né assunzioni soltanto a tempo indeterminato, nonostante gli incentivi. Chi potrà, continuerà ad assumere a tempo determinato, facendo anche qualche forzatura interpretativa circa le “causali”; chi non potrà, ricorrerà alle finte partite iva che, dopo il jobs act, erano scemate abbastanza o ad altre forme di “cattiva flessibilità”.
Infatti, la flessibilità è buona soltanto quando è trasparente, legale, controllabile, contrattata. Ma soprattutto quando è dignitosa. E questa, nessuno la mette in discussione. Peccato, che molti la trattano come un vestito che, oltre alla misura, ha tanti “drop” per adattarlo alla corporatura dell’individuo. Un contratto a tempo determinato “sì, ma” ha già avuto la sua stagione, all’inizio del 2000, ma ha fatto felici soltanto gli avvocati. Anche questa fase è durata poco, anche per i costi lunari per i lavoratori del ricorso al giudice. In termini di novità, dunque, il “governo del cambiamento” ha offerto poco; anzi, ha riprodotto un déjà vu.
Se si accetta la “buona flessibilità”, questa deve essere tutelata adeguatamente. E su questo piano, anche le soluzioni del jobs act e i successivi aggiustamenti non sono stati efficaci. L’espansione del ricorso al lavoro a tempo predefinito da parte delle imprese private e pubbliche, anche in una fase di rilancio dell’economia, spiega una sola cosa: che il lavoro sta ritornando ai livelli precrisi, ma non è più lui. I sistemi produttivi ed organizzativi sono enormemente cambiati. L’imprevedibilità dei comportamenti dei mercati e della longevità dei prodotti e delle tecnologie condiziona la prevedibilità del tempo d’impiego di un lavoratore, qualificato o non. Ovviamente, ha anche contribuito il calcolo delle convenienze: se si manda via un lavoratore a tempo indeterminato c’è un costo (finora 4 mensilità ma da ottobre, 5) e c’è sempre latente il rischio della vertenzialità giudiziaria; con il contratto a tempo determinato tutto ciò semplicemente non c’è.
Per non continuare a cincischiare, il rimedio è soltanto uno: il contratto a tempo determinato deve costare di più e assumere più dignità. Non deve essere trattato come un contratto di serie B. Né dallo Stato, né dalle parti sociali. Non deve essere considerato un’eccezione. Né dal sindacato, né dal singolo lavoratore. Se si ribalta la storica catalogazione del contratto a tempo indeterminato come unica, vera, sicura forma che da senso al lavoro, forse emergerà, con maggiore vigore, la necessità di trattare il contratto a tempo definito alla pari di quello indefinito. E se così è, c’è materiale interessante per il legislatore e per le parti sociali per spazzare via i tentativi di regolare dall’alto fenomeni complessi e nello stesso tempo, per introdurre elementi di universalità di facile gestione.
In concreto, il legislatore dovrà farsi carico di estendere anche ai lavoratori a tempo determinato alcuni diritti (per esempio, lo sgravio fiscale per i benefici derivanti dal welfare aziendale) e anche alcune tutele (prevedere che costi il 15% in più dei minimi contrattuali, da destinare in parte alla pensione e in parte ad un fondo di assistenza in caso di periodi lunghi di disoccupazione; inoltre, creazione di un fondo di rotazione per garantire a questi lavoratori di poter accendere ai mutui per l’acquisto della casa). Le parti sociali, a loro volta, devono generalizzare i vantaggi della contrattazione di secondo livello anche a questi lavoratori. Si contano sulla punta della mano, i contratti aziendali che estendono il premio di produzione anche a chi non è assunto a tempo indeterminato.
In questo contesto, la scelta delle aziende di ricorrere al contratto a tempo determinato sarebbe sempre più dettata da calcoli di convenienza economica. Quella del lavoratore sempre meno accompagnata da una continua incertezza verso il futuro. La buona flessibilità acquista valore; non è né ripiego, né speculazione. Senza negare che ci potranno sempre essere i furbetti, il dualismo del mercato del lavoro perderebbe l’odiosità della gerarchizzazione delle forme dei contratti, per delineare una “dignità nella diversità” che finora non è stata realizzata. In questa maniera, anche la partecipazione alla vita dell’azienda e a quella del sindacato da parte dei lavoratori a tempo determinato avrebbe ragion d’essere, con vantaggi per tutti.